«Vale la pena di battersi fino in fondo per le proprie visioni. Perché mai passare la vita a fabbricare i sogni di qualcun altro?» C’è un tocco d’autobiografia ravvicinata in questo passaggio di Ed Wood, il film teneramente solidale che Tim Burton ha dedicato al «peggiore regista di tutti i tempi» secondo le pagelle di Hollywood. L’incoraggiamento che nel film del ’94 il grande Orson Welles rivolge in un incontro immaginario al novellino, primatista dei più clamorosi flop in pellicola, filtra la filosofia grande schermo di Burton, snocciolata dalla personale al 14° Festival Lumière, dal 15 al 23 ottobre a Lyon, di cui il cineasta è l’ospite d’onore: mai uniformarsi all’ordine stabilito dello show business – questa la sua politica d’autore -, mai prosciugare i propri miraggi, per quanto intimidatori e insormontabili siano gli ostacoli. La fabbrica di cioccolato e i due Batman esprimono al meglio la fede d’un eretico di genio, che proprio dagli Studios ha succhiato il suo latte di futuro outsider, da più stagioni «esule» in Gran Bretagna. Nella grigia banlieue hollywoodiana di Burbank, natìa borgata selvaggia, all’ombra degli imperi Disney e Warner Bros., il minuscolo Tim era cresciuto in totale solitudine, come un Leopardi di costa californiana anziché marchigiana, lui pure afflitto e operoso, luttuosamente immerso nella erudizione dell’era mediatica. Dunque incline a nutrire parallele miscele di tombe ignude e incanti virginali, irruenze gotiche e nostalgie di svaporate bellezze – La sposa cadavere, Nightmare before Christmas, il primo Frankenweenie (il corto dell’84) -, suggestionate non da polverosi tomi di biblioteca ma da fugaci zapping tv d’horror di serie B o ritagli al volo di figurine del momento: la serie della Topps Chewing Gum Company, cui s’ispirano i marziani con la testa a lampadina di Mars Attacks!, o, per il primissimo corto in stop motion, Cavemen (realizzato a soli 13 anni nel ’71), la strip B.C. dei cavernicoli all’età della pietra (e della ruota ancora quadra). Circo (Dumbo), favola nera, mostra di mostri – di cartoon, in plastilina, in carne e ossa, in 3D -, quello di Burton è un universo d’apparizioni oblique, prossimo a esuberanze oltretombali, a exploits d’aldilà – gli zombi di Beetlejuice, il barbiere diabolico di Sweeney Todd, il cavaliere senza testa di Sleepy Hollow, i vampiri di Dark Shadows – più che alle piattezze della vita, eluse dalle storie fantastiche di Big Fish. Con ritrovata vitalità, teschi e tibbie fan festa nel suo cinema: è lo spettatore a divenire l’alieno nella scorribanda di tormentoni post-biberon, raduno gioioso di freaks ormai familiari – preistoria di Burton e infanzia dei suoi film – che hanno coccolato in culla il loro sognatore. Testa arruffata, i mille riccioli in battaglia, barbetta e palpebre cariche di sonno, Burton, stropicciato Peter Pan di 64 anni, ricorda e sogna.

Una mostra a Madrid, una personale a Lyon: due radiografie parallele?
La mostra, come quella di Parigi e, prima, al Moma di NY, mi mette a nudo: registra lo stato febbrile che ha preceduto ogni volta il set, la nascita di storie e personaggi su fogli vaganti o tovagliolini di carta, tra frenesie di matite e pastelli a cera. Edward Scissorhands ha preso forma così: da un impulso a scarabocchiare la stessa figura senza sapere esattamente che cosa ne sarebbe uscito. L’ho capito dopo: un personaggio cui le dita di lame impedivano ogni contatto con gli altri. Sleepy Hollow è nato invece dall’idea di opporre un personaggio razionale, tutto testa, a uno immaginifico, senza testa.

Lei che ha un debole per gli scheletri: il suo lavoro ridotto all’osso?
Fin da bambino, il disegno è stato un mezzo di comunicazione, per me più spontaneo della parola. È diventato pian piano un mezzo per esplorare il mio subconscio: l’anticamera non programmata del mio cinema. È il subconscio, non la mia mente, il responsabile di ossessioni con cui poi mi tocca coabitare per almeno uno-due anni, il tempo della preparazione d’un film.

Ha cominciato a manovrare le matite già da poppante: sono da allora la sua cinepresa tascabile?
Come probabilmente a ogni bambino, a me è sempre piaciuto disegnare, ma anche, come hanno fatto molti altri bambini, girare film in super8. Forse con perversione precoce, non m’ero mai dato un obiettivo concreto in queste pratiche. Finché non ci mise lo zampino la scuola, di cui ero un pessimo virgulto, assegnandomi un giorno un compito spaventoso: leggere un intero libro e trarne 50 pagine di commento. Non mi è mai piaciuto leggere: fin da bambino ho evitato scrupolosamente i fumetti con troppo testo. Invece della relazione scritta ho girato un super8 su Houdini, mio secondo film amatoriale, nello stesso anno di Cavemen, ma in presa reale: e, senza avere scritto una riga, ho preso 10 e lode. Ho capito allora che questa poteva essere la strada da percorrere: creare qualcosa di nuovo.

O di stravecchio, anzi, di estinto?
I miei genitori mi hanno detto che prima ancora di cominciare a parlare stavo ore davanti ai film d’orrore, senza paura. L’emozione più forte, l’ho provata la prima volta in cui ho visto precipitare King Kong dall’Empire State Building. Quando alla fine d’un film il mostro muore, mi commuovo sempre. Perché nel corso della proiezione siamo diventati amici. Da bambino, mi sentivo consolato da Frankenstein: era come me, inadeguato e incompreso. Sono sempre stato attratto dai personaggi-limite, a patto che siano inconsapevoli della loro estraneità.

Da che dipende il suo frequente a tu per tu con i mostri?
Aver commercio con i non-morti mi viene forse da un’infanzia trascorsa nell’opaca banlieue hollywoodiana di Burbank, ambientino da Notte dei morti viventi alla luce del giorno. Da una parte sono stato sepolto vivo dentro una cultura chiusa e puritana dove la morte era l’argomento lugubre da scongiurare, dall’altra vivevo a due passi da una comunità ispano-messicana dove si celebrava el dìa de los muertos come un inno alla vita e gli scheletri – calaveras – eran protagonisti di feste di colore, musica e danza: un approccio più positivo ai nostri enigmi, senza tabù bigotti.

Il suo incubo, il vero mostro, è dunque stato il luogo d’origine?
Come si fa a sopravvivere in una landa immobile senza cambio di stagioni? Bello e temperato tutto l’anno: questo il clima della mia infanzia. Ho finito per trascinarmi per ore nelle corsie del supermarket nei periodi di Natale, Pasqua, Hallowen: gli scaffali ogni volta diversi mi son serviti a scandire l’esistenza.

L’isolamento è stata l’unica reazione alla monotonia?
La pacatezza soporifera dei luoghi mi ha indotto a rivolte solitarie, provocazioni di humor macabro e messinscene farsesche, ispirate dai miei horror preferiti: diffondevo per esempio la voce che un disco volante era atterrato nel parco, dove avevo costruito una carcassa e tracciato impronte misteriose, o che un evaso sanguinario s’aggirava nel quartiere, dove mi facevo trovare travestito da assassino per seminare il panico.

Lei è stato il primo soggetto del suo cinema: «Vincent», corto d’esordio ufficiale, stop motion di 6 minuti, nel« 1982.
È il mio lavoro più direttamente autobiografico, insieme a Edward e Ed Wood, i miei preferiti. È su un bambino solitario e sognatore, estraneo al mondo, posseduto da una passione gemella: Edgard A. Poe, con le sue donne sepolte vive, e Vincent Price, star degli horror tratti da Poe. Ho voluto anche rendere omaggio a Price – maestosa voce off del mio corto – che, con Christopher Lee, Bela Lugosi, Peter Lorre, Boris Karloff, è tra i mostri che mi han salvato la vita, aiutandomi a uscire dalla depressione psicologica degli anni infantili.

La sua infanzia: età della noia, del disagio?
Da piccolo mi sentivo un sopravvissuto, non avevo voglia di nulla, ero sempre insonnolito. Un’anemia del vivere che mi sono trascinato fino agli anni di lavoro alla Disney, dove avevo perfezionato una tecnica per dormire, due ore al mattino, due al pomeriggio, davanti ai miei disegni, con la matita in mano, pronto a riscuotermi e farmi vedere attivo. Trascorrevo ore e ore rinchiuso nella mia camera: mi nascondevo sotto la scrivania o nell’armadio a muro. I disegni a getto continuo e i film horror in tv erano i miei antidolorifici: mi hanno fatto uscire da una spirale pericolosa, mi hanno indicato il cammino.

Quello additato in «Ed Wood»?
Quello. Ogni film è stato per me un combattimento, una sfida a Hollywood che ha sempre sospettato di me, della mia singolarità. Ho impiegato una vita per cercare di divenire un essere umano. Mentre l’America cercava di fare di me una mercanzia.