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Tiger Lily e Co., la vera truffa del rock’n’roll

Tiger Lily e Co., la vera truffa del rock’n’rollL'album omonimo dei Brother Bait uscito nel 1976 su etichetta Tiger Lily

Storie/Etichette create negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta con l’intento di frodare il fisco Il primo imprenditore discografico a fiutare l’affare fu Morris «Moishe»Levy, già titolare della Roulette Records. Nei cataloghi vecchi demo, album già incisi e mai pubblicati, ristampe e incisioni varie, spesso non ultimate con autori improvvisamente spariti

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 10 settembre 2022

Probabilmente nessuno ha mai ascoltato l’omonimo album di debutto della band di Atlanta Brother Bait, uscito nel 1976. Il mistero circonda anche i Calliope che sempre nel 1976 diedero alle stampe un disco in cui, assicurano i pochi che hanno avuto la possibilità di ascoltarlo, univano il sound delle big band ai ritmi della musica disco dance. I vinili di queste opere oggi sono materiale per collezionisti e indagatori delle eccentricità della storia del rock. Sì, perché gli album dei Brother Bait e dei Calliope, unitamente a numerosi altri lp usciti negli Stati Uniti negli anni dal 1976 al 1978, vennero pubblicati con l’unico obiettivo di rimanere completamente invenduti. Erano dischi destinati al fallimento, al centro di un machiavellico piano economico architettato da alcuni discografici con grande fiuto per il denaro e assai pochi scrupoli.

UN VULNUS
Questa storia ha inizio nel 1976, quando qualche contabile al servizio di una major della musica si accorse di un curioso e appetitoso vulnus nella legislazione fiscale americana riguardante l’industria del disco. A un grande marchio discografico era consentito creare un’etichetta sussidiaria facendo configurare le eventuali perdite di questa nuova impresa come investimenti e quindi come sgravi fiscali per l’investitore ossia per l’etichetta principale. Molto più di una «bad bank», il nuovo marchio poteva essere una spettacolare macchina macina-insuccessi e ogni spesa contribuiva magicamente a gonfiare i profitti. L’operazione però richiedeva un certo cinismo e una buona propensione al rischio, visto che lo schema, seppur agevolato da un vuoto legislativo, avrebbe comunque potuto attirare l’attenzione. Ma in quegli anni alcuni imprenditori del mondo del rock non erano avversi a rischiare il tutto per tutto.
Uno di questi era Morris «Moishe» Levy, un ebreo newyorkese che nel 1949, appena ventiduenne, aveva aperto a Manhattan il leggendario jazz club Birdland per poi diventare un vero magnate, fondando nel 1957 la casa discografica Roulette Records e avviando, nel corso degli anni, 90 compagnie tutte attive a livelli diversi nel mondo della musica. Levy divenne ben presto noto per la personalità straripante, i metodi spicci e il pelo sullo stomaco. La Roulette Records si lanciò sul mercato pubblicando dischi jazz e diversi brani del primo rock’n’roll. Levy, scelse come direttori creativi i due produttori Hugo Peretti e Luigi Creatore (saranno gli autori di una delle più famose canzoni interpretate da Elvis, «Can’t Help Falling in Love», ne abbiamo parlato in «Alias» del 6 marzo 2021, ndr), lavorando con grandi nomi come Bill Haley, Dinah Washington, Louis Armstrong e Count Basie. Il successo della Roulette non era senza ombre. Il suo patron ingannava e ricattava gli artisti fino ad accreditarsi come autore di canzoni altrui. Una delle sue vittime più illustri fu la popstar anni Sessanta Tommy James che inanellò successi a ripetizione senza quasi mai ricevere royalties. Come se non bastasse, Levy era un più che volenteroso partner in affari delle famiglie mafiose di New York, prima di tutto il clan Genovese.
Fu così che nel 1976 l’uomo che Variety definirà il «polpo» per la sua capacità di estendere i suoi tentacoli ovunque diede inizio all’etichetta Tiger Lily il cui unico scopo era di mettere a bilancio delle clamorose perdite di esercizio che si sarebbero poi trasformate in ricavi per la Roulette Records. Il piano era chiaro: stampare album in serie e dichiararli invenduti. Ogni titolo sarebbe stato prodotto indicativamente in qualche migliaio di copie e poi sarebbe stato fatto circolare il minimo indispensabile e fatto impolverare in magazzino, incolpando poi del clamoroso flop la crudeltà del pubblico e l’imprevedibilità del mercato. Sorgeva però un problema, per produrre un 33 giri era comunque necessario avere della musica a disposizione. Per quanto finalizzata all’insuccesso la produzione della Tiger Lily doveva apparire comunque legittima e con tutti i crismi delle consuete uscite discografiche. Lo schema poi sarebbe stato efficace solo con un numero sufficientemente alto di titoli immessi fittiziamente sul mercato. La Tiger Lily quindi aveva bisogno di tanta musica e tutta possibilmente di scarsa qualità. Con un’operazione che ricorda quella del film Per favore, non toccate le vecchiette di Mel Brooks, Levy e soci andarono alla ricerca di qualsiasi cosa avesse un minimo di standard per finire sui solchi di un vinile, ma senza aver possibilità di diventare un successo a sorpresa. In due anni vennero stampati quasi cento album assemblando demo, dischi già incisi ma che nessuno voleva pubblicare, ristampe di album di scarso successo già editi e incisioni varie, spesso non definitive, i cui autori si erano persi di vista.

PER COLLEZIONISTI
Il primo lp a marchio Tiger Lily fu l’album omonimo degli Airborne, prima e unica uscita di una guitar rock band di cui anche i collezionisti più accaniti oggi fanno fatica a trovare informazioni. A quanto pare il leader era un cantante polistrumentista chiamato Kevin McCabe, forse del New Jersey. Oggi il vinile, che aveva una scoraggiante copertina bianca con in un angolo un infantile disegno di un aeroplano, ha un valore di mercato di qualche centinaio di dollari. Su YouTube è possibile ascoltare l’album omonimo, tra ballate, pop e classic rock con strappi di chitarra. Poco dopo uscirono gli album dei già citati Brother Bait, che hanno lasciato qualche traccia in più del loro passaggio nel mondo musicale, e dei fantomatici Calliope che con tutta probabilità erano soltanto un nome di occasione dato ad alcune registrazioni musicali spaiate, ma affini, assemblate con metodo e follia in un unico disco. Non tutti i vinili con etichetta Tiger Lily erano firmati da band inesistenti o da perfetti sconosciuti, alcuni titoli erano registrazioni di musicisti jazz con una certa fama, ma sicuramente non tale da richiamare l’attenzione del grande pubblico. Non si sa perché l’etichetta diede anche alle stampe, rischiando di vendere qualche copia, un album del celebre comico Richard Pryor che ai tempi pubblicava registrazioni di spettacoli di stand-up comedy che avevano un discreto successo. Ma al di là di questa trasgressione alla regola, la truffa di Levy si rivelò per diversi mesi del tutto efficace. C’è inoltre il sospetto che molti dei titoli in catalogo fossero, al fine di ingigantire per motivi fiscali la perdita, stampati in pochissime copie ma alla IRS, l’Agenzia delle Entrate americana, venissero dichiarati migliaia di esemplari prodotti. Non solo: portato a termine il trucco fiscale, i 33 giri mai venduti e ufficialmente finiti al macero, trovarono comunque il modo di essere smerciati sottobanco sul mercato dell’usato come pezzi d’occasione, riuscendo a racimolare ancora qualche dollaro.
La Tiger Lily non fu però l’unica etichetta-truffa. Fino all’inizio degli anni Ottanta il trucchetto sembrò funzionare per diverse imprese discografiche. Nacquero una serie di altri marchi votati al martirio commerciale. La Guinness Records nota come ogni truffatore che si rispetti anche con un altro nome, la Dellwood, pubblicò in poco meno di due anni quasi cento titoli. Il proprietario era un certo Marvin «Marvo» Popkin un imprenditore immobiliare che aveva fatto una certa fortuna in Florida e che si vantava di essere stato vicino di casa di Al Capone. La Guinness non era la diretta emanazione di una casa discografica maggiore. Popkin, che è morto nel 2016 a Miami a 84 anni, aveva architettato un sistema leggermente diverso, facendo confluire gli sgravi fiscali su singoli investitori che risultavano i detentori del copyright per ogni uscita discografica anche qui destinata al fiasco. Il catalogo era composto da una serie di incisioni rimediate ovunque. C’erano demo o registrazioni non finite di band note, come un album della formazione di Detroit The Rockets che poi incise sei dischi per major discografiche a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Venne anche pubblicato un demo inedito degli Atlantic Starr, gruppo di pop soul che raggiungerà il disco di platino negli anni Ottanta. Erano pubblicazioni che spesso venivano fatte all’insaputa degli stessi artisti, inconsapevoli del fatto che alcune loro session di incisione fossero state rivendute. La Guinness faceva poi incetta di registrazioni spurie e le assemblava in compilation che venivano editate con dei nomi di artisti e gruppi inesistenti. È il caso dell’ellepì omonimo degli Hotgun uscito nel 1977 che raccoglieva alcuni brani di un musicista avanguardista di Nashville, R. Stevie Moore, che ha scoperto dell’esistenza del disco più di trent’anni dopo, quando fu contattato dal giornalista esperto in curiosità musicali Bart Bealmear. «Non ho mai sentito questa storia in vita mia… assolutamente assurdo», ha risposto Moore quando ha scoperto dell’esistenza di questo album. Bealmear riuscì anche a contattare Marvin Popkin che gli spiegò come la Guinness fosse sì un’impresa nata per generare sgravi fiscali, ma tutto fosse perfettamente legittimo. I 33 giri della sua casa discografica si distinguevano rispetto a quelli della Tiger Lily per un certo gusto artistico nelle copertine, ma anche qui c’è l’intuito dell’imprenditore rapace. Popkin, infatti, sfruttò l’opportunità del credito fiscale anche per realizzare le grafiche e a quanto pare questo generò un business nel mondo dell’arte che si trasformò in un’impresa del tutto legittima e proseguì per diversi anni.

UN MERCATO FLORIDO
Altri misteriosi marchi discografici arrivarono sul mercato nello stesso periodo della Tiger Lily e della Guinness. La Tomorrow operava da New York ed era associata a un’etichetta chiamata Vibration; aveva la particolarità di pubblicare i suoi lp con immagini di copertina tutte realizzate da un’artista newyorkese, Sonja Eisenberg, peraltro utilizzate senza nessuna autorizzazione. La Diplomat/Rocking Horse era un’etichetta attiva fin dagli anni Cinquanta e specializzata in dischi per bambini. Dal 1977, improvvisamente, il suo catalogo venne arricchito di produzioni rock, jazz e punk. Così accanto alle canzoni da asilo nido l’etichetta stampò l’unico disco del trio newyorkese rock progressive Random Element intitolato stranamente Afternoon in Milan. Ma la pubblicazione più curiosa è forse Rotten Punks dei Rotten Kids, un 33 giri che non contiene neppure un pezzo punk e nulla di «rotten», marcio, solo canzoni probabilmente incise da due gruppi differenti che spaziavano dal pop, al blues con qualche divagazione sperimentale. Il sottobosco di quegli anni vede anche attivi nel mondo delle pubblicazioni discografiche fasulle il produttore texano Huey Meaux, patron della Crazy Cajun, finito poi in carcere negli anni Novanta per reati legati alla pornografia. Altre etichette furono Album World (che pare si inventasse un nuovo marchio per ogni nuova uscita), Mandala, Illusion, Koala, Baby Grand, Dobre, Tribute e TSG. In alcuni casi di queste label si sa poco o nulla.

LA PAROLA FINE
La realtà è che, proprio come sosteneva Marvin Popkin, queste iniziative furono profittevoli e scriteriate, ma per qualche anno consentite. Solo all’inizio degli anni Ottanta la IRS iniziò a ritenere fraudolente queste operazioni. Una legge del Congresso americano del 1984, il Deficit Reduction Act, mise la parola fine a questa e ad altre scappatoie del sistema fiscale. L’industria degli insuccessi discografici chiuse definitivamente. Alcune etichette scomparirono del tutto, altre ritornarono nell’alveo della piena legittimità, alcune si riorganizzarono diventando marchi per bootleg o dischi pirata come la Album Globe che nei primi anni Ottanta pubblicherà raccolte non autorizzate di Beatles, Led Zeppelin, Doobie Brothers, Kansas e Barbra Streisand. I vinili stampati solo per fallire sono diventati oggetto di culto per collezionisti un po’ ossessivi che amano andare alla ricerca di qualche perla smarrita del rock e indagare, ripercorrendo le assurde vicende di alcune di quelle registrazioni spesso dimenticate anche da chi le realizzò.
La storia della Tiger Lily e del suo patron Morris Levy ha però una curiosa appendice. Per Levy l’avventura dell’etichetta fu solo una delle sue rocambolesche scorribande nel mondo musicale. Tra le sue imprese ci fu una causa intentata a John Lennon con l’accusa di plagio per la canzone Come Together che citava una frase del brano You Can’t Catch Me di Chuck Berry di cui Levy deteneva i diritti.
La fine della carriera di colui che una biografia ha definito «Il Padrino della musica» arrivò negli anni Ottanta e anche in questo caso la vicenda è legata ai dischi. Levy, infatti, decise, con un’operazione azzardata, di comprare una colossale partita di album d’occasione, i cosiddetti cut-out, fondi di magazzino invenduti che venivano rimessi sul mercato a prezzi scontati e che venivano contrassegnati con un piccolo taglio sulla copertina. Si trattava di più di 4 milioni di 33 giri e cassette provenienti dalla Mca, con diversi titoli di artisti anche di grande richiamo come Elton John, The Who, Neil Diamond e Olivia Newton-John. Già abituato a rimettere in circolazione fondi di magazzino, il discografico contattò un rivenditore di Filadelfia, John LaMonte, titolare della catena di distribuzione Out of the Past e noto anche per essere un editore di dischi pirata e contraffazioni. L’intenzione era di vendere la partita in blocco per 1,25 milioni di dollari, ma l’acquirente, ricevuta la merce, si rifiutò di pagare, affermando che dal carico erano scomparsi tutti i nomi più interessanti e il valore non poteva essere quello del prezzo pattuito. Il problema di Levy era che nell’affare si era inserita anche la mafia e in particolare Gaetano «Corky» Vastola, boss della famiglia DeCavalcante del New Jersey. Farsi pagare era quindi un imperativo. Nel maggio del 1985 in un parcheggio del New Jersey Vastola e Levy andarono a esporre le loro ragioni a LaMonte che, dopo l’incontro, dovette sottoporsi a un delicato intervento chirurgico per la ricostruzione del volto. L’intera negoziazione era stata però seguita dall’Fbi che aveva degli agenti infiltrati e aveva intercettato le telefonate tra Levy e Vastola. LaMonte accettò di testimoniare e fu inserito in un programma di protezione. Nel settembre del 1986 una vasta operazione della polizia federale portò all’arresto di Morris Levy, di Gaetano Vastola e di altre 15 persone tra cui rappresentanti del clan Genovese di New York. Levy aveva costruito un impero da 30 milioni di dollari con le sue etichette, i suoi locali e con i diritti sulle canzoni. In quegli anni era stato anche uno dei finanziatori della Sugar Hill Records, il principale marchio al centro della rivoluzione hip hop. Morirà di cancro il 21 settembre 1990 a 62 anni, proprio quando, finiti processi e appelli, avrebbe dovuto entrare in cella per scontare una pena di 10 anni.

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