«Mascherina» l’accessorio antivirus che copre bocca e naso, è la parola più usata di questi tempi. Fino allo scorso carnevale rimandava a una fascetta nera sagomata con fori per gli occhi, di stoffa o di carta spessa, indossata dalla Bautta veneziana. Nell’immaginario collettivo, peraltro, richiama lo spadaccino Zorro nelle sue imprese romanzesche. Che copra la parte inferiore o quella superiore, la mascherina travisa il volto delle persone (non sempre… «ti conosco mascherina!», come si dice nel linguaggio figurato) e poiché la maschera per definizione è finzione, essa ci porta a un interrogativo: la vita che stiamo trascorrendo è proprio quella effettiva, rispondente a una possibile esistenza reale, benché inattesa, oppure si sta traversando una dimensione inedita, uno spazio/tempo oltre la realtà oggettiva e dunque finto, come è materia di finzione la maschera che indossiamo? Il quesito si scioglierebbe, senza proseguire su un terreno che trascende l’esperienza sensoriale e che diverrebbe scivoloso, se e quando ce la faremo a liberarci della mascher(in)a e della finzione che sottende. Intanto gli scenari, che questa realtà sospesa apre, c’inducono, tramite la simulazione coattiva della maschera, a comportamenti impensabili fino a tre mesi fa. Poniamo attenzione per gli altri, cogliendo anche, sommariamente, tratti delle loro personalità. Per dire: il tempo (non più perso) nel fare la fila distanziata prima di accedere in un locale commerciale, s’impiega per osservarci l’un l’altro, per scrutarci quasi, di sottecchi, consapevoli di essere meno esposti al disagio interiore ora che il travisamento è consentito. Avremmo potuto avere questo atteggiamento nella realtà precedente da cui siamo usciti, dove, con addosso la corazza dell’indifferenza o della superbia, non ci si degnava neppure di un’occhiata? Abbiamo bisogno di una mascherata, della forma sulla sostanza, della finzione sulla verità, per essere più spontanei, per tornare semplicemente a guardarci quando ci s’incontra. Apparire, fingere… per sentirci autentici. Il tema della finzione, o dell’illusione, che la maschera implica, contrapposto al vero e alla verità, l’aveva affrontato acutamente Stanley Kubrick sul finire degli anni ’90 con «Eyes wide shut», un film permeato di raffinate atmosfere oniriche. Finzione e verità peraltro sono due facce della stessa moneta: la modalità soggettiva di esporre un fatto, sulla base di proprie conoscenze e valutazioni, si presta all’interpretazione ed ecco rispuntare la simulazione. La verità, assoluta, è in sé stessa; qualsiasi resoconto la traviserebbe. La questione resta aperta da duemila anni. A Gesù che affermava di essere venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità, Ponzio Pilato, che lo interrogava, chiese (e si chiese) stupefatto: «Che cos’è la verità?».