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Thomas Bayrle, serialità industriale come forma di preghiera

Thomas Bayrle, serialità industriale come forma di preghierahomas Bayrle, part. da «Concert», ph. Sebastiano Pellion di Persan

Mostra Bayrle è approdato alla Pinacoteca Agnelli di Torino dove si staglia anche una sua grande scultura permanente, con una potente personale curata da Sarah Cosulich & Saim Demircan, visitabile fino al 2 aprile 2024

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

Cosa hanno in comune il lavoro in fabbrica e la devozione religiosa? All’apparenza sono due mondi sideralmente lontani, eppure condividono la dicotomia fra individuo e collettività chiamando in campo entrambe le «entità». È questo, in fondo, il pensiero sotteso alla produzione artistica di Thomas Bayrle il quale, disseminando le sue «superforme», ha raccontato i processi della serialità (spesso in controluce su meravigliose carte da parati con fitte giungle di particolari ripetute per sconfiggere la vertigine dell’horror vacui) ma anche della creazione del mito, come se nella riproposizione ossessiva (di un’immagine o di un elemento meccanico forgiato in catena di montaggio) si annidasse il segreto della vita, soprattutto della resistenza al tempo che passa e all’inevitabile svanire di sé stessi.

Nato a Berlino nel 1937 (vive e lavora a Francoforte), ex impiegato nel campo del tessile industriale, poi grafico pubblicitario e infine poliedrico inventore di uno scoppiettante immaginario del pop europeo, Bayrle è approdato alla Pinacoteca Agnelli di Torino – luogo per lui iconico, compresa la Pista 500 dove si collaudavano le macchine e dove ora si staglia verso il cielo una sua grande scultura permanente – con una potente personale curata da Sarah Cosulich & Saim Demircan (visitabile fino al 2 aprile 2024). In dialogo con la storia dell’ex fabbrica Fiat, la sua mostra accoglie gli spettatori con un concerto di pistoni e tergicristalli (in qualità di direttori d’orchestra) in cui i movimenti degli ingranaggi si mescolano con preghiere e arie cantate da Maria Callas o Edith Piaf: la sua è una sala musicale ad alta densità emotiva, abitata da un loop infinito che «mima» i gesti seriali e la produzione modulare di pezzi meccanici.

Le opere di Bayrle al Lingotto, che sanno giocare con l’umorismo e insieme sviluppare un pensiero critico di piena sorveglianza sulla società e le sue trasformazioni, riescono democraticamente a far convivere storie disparate attraverso atti di fede laici e religiosi: si va dal lavoro in fabbrica cinese a Mao con la sua rivoluzione culturale; dagli anonimi passanti che affollano le strade ai marchi del consumismo che popolarono il boom economico degli anni Sessanta, passando poi per gli atti erotici liberati dalle nuove istanze sessuali e la sacralità di una Madonna Mercedes (1989), che si invera fra le maglie della ripetizione di una automobile di lusso. Ci sono anche le città, che brulicano ipnoticamente di forme reiterate. L’artista coltiva un’idea di connessione del tutto, un’immanenza esistenziale. Il suo sguardo intrappola gli elementi e una rete intricata di richiami, consonanze, somiglianze, simbologie.

«A volte, quando mi abbandonavo allo stato di trance indotto dalla tessitura –confessa nell’intervista con Hans Ulrich Obrist raccolta nel catalogo – i milioni di fili che si incrociavano tra loro davanti ai miei occhi si fondevano in un amre di strade e di case. Il tessuto che scorreva verso di me si trasformava nel delirio di una ’megalopoli’, come se Tokyo, Los Angeles o Città del Messico fuoriuscissero dal mio telaio. Masse di fili individuali divenivano un autentico tessuto collettivo».

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