«Things have changed», Bettye LaVette canta Dylan
Note sparse Dodici pezzi tratti dal songbook del menestrello di Duluth riletti dalla cantante americana. Interpretazioni di classe, volutamente lontane dagli originali ma vicine a quello spirito di rivolta
Note sparse Dodici pezzi tratti dal songbook del menestrello di Duluth riletti dalla cantante americana. Interpretazioni di classe, volutamente lontane dagli originali ma vicine a quello spirito di rivolta
Detroit è una città difficile: è la Motor City d’America per antonomasia, segnata dalla catena di montaggio della Ford e dall’industria dell’auto, per decenni principali sostegno sia della classe operaia che per la middle-class; non esente da feroci lotte civili, nel corso degli ultimi anni è salita più volte sull’ottovolante della crisi senza mai del tutto abbandonarsi a se stessa. Anzi trovando nei suoi abitanti, soprattutto in chi è rimasto e non si è lasciato schiacciare dagli eventi, la forza di andare avanti e rinascere: cosa che sta accadendo oggi. In tale contesto e non va dimenticato che Detroit è anche la patria del suono Motown: soul e funk, R&B con radici ben saldate nel blues e nel gospel; ma anche del proto punk-hard rock degli Stooges e degli MC5 e anni più tardi di un fusion jazz aperto anche alla techno.
Qui è cresciuta Bettye LaVette, classe 1946, natali in un minuscolo paese del Michigan, cantante dotata di una «vocetta graziosa e mellifua», come ebbe a dichiarare di recente, che ebbe un esordio folgorante, tanto da registrare con l’Atlantic addirittura nel 1962. Poi in più di 50 anni di carriera, molta routine, piccoli successi confinati in categorie specifiche, e generali apprezzamenti. La routine composta da centinaia di concerti la portò in giro per il mondo ad incontrare artisti straordinari, tra i quali Bob Dylan. Fu un incrocio rapido, ma tanto forte da lasciare una traccia in entrambi e ora a distanza di anni, LaVette registra per la Verve (distribuzione Universal) un intero album di canzoni del menestrello e premio nobel di Duluth: Things have changed. Lo fa a suo modo e di certo non sono cover scontate, allo stesso tempo lontane dagli originali, ma vicine a quello spirito in rivolta e mai eguale a sé che è una delle cifre del Dylan estremo e di oggi.
«Le mie a volte – spiega LaVette – sono versioni ‘ebonic’, come si dice per il linguaggio di strada degli afroamerican poco istruiti. È il mio modo di adattare il testo a uno stile più colloquiale che mi è naturale. Per prendere nota dei testi e imparare le melodie ho naturalmente ascoltato le versioni originali. Ma non mi hanno influenzato perché avevo già in testa il modo in cui avrei voluto renderle io».
D’altronde questo è il metodo della cantante e si riflette anche nella scelta delle canzoni prelevate dai leggendari album pre-elettrici dei primi anni ’60 fino a Modern Times del 2006 o ai dischi degli anni ’80 come Infidels e Empire Burleque e Oh Mercy. La produzione aurea è di Steve Jordan, ex Blues Brothers e sodale di Keith Richards. Il rolling stone presta la sua inconfondibile chitarra a Political world.
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