Therese Anne Fowler, frontiere domestiche del rifiuto
TEMPI PRESENTI Intervista all’autrice del romanzo «Un bel quartiere», pubblicato nella collana Bloom di Neri Pozza. Un’antica quercia minacciata da un abuso edilizio, una comunità divisa da denaro e colore della pelle. A Oak Knoll, North Carolina, tra gentrificazione e nuovi ricchi emerge il volto brutale dell’era Trump. «Molti bianchi vivono in una confortante spensieratezza, mentre i neri devono guardarsi intorno: il colore della pelle li rende vulnerabili»
TEMPI PRESENTI Intervista all’autrice del romanzo «Un bel quartiere», pubblicato nella collana Bloom di Neri Pozza. Un’antica quercia minacciata da un abuso edilizio, una comunità divisa da denaro e colore della pelle. A Oak Knoll, North Carolina, tra gentrificazione e nuovi ricchi emerge il volto brutale dell’era Trump. «Molti bianchi vivono in una confortante spensieratezza, mentre i neri devono guardarsi intorno: il colore della pelle li rende vulnerabili»
Valerie Alston-Holt ha due grandi passioni: suo figlio Xavier, un ragazzo pacato che studia chitarra classica e sta per partire per il Conservatorio e le piante del suo giardino, a cominciare da una vecchia quercia, alta più di venticinque metri, che domina quel terreno da almeno un secolo. Ad Oak Knoll, un quartiere di villette d’altri tempi di una cittadina del North Carolina, Valerie è arrivata dal Michigan quando ha sposato Tom, un sociologo progressista, che è morto d’infarto quindici anni prima, e per insegnare Scienze ambientali nell’ateneo locale. Valerie è nera, Tom era bianco e Xavier, che ha appena compiuto diciotto anni, è un bel ragazzo dalla pelle scura e i capelli biondi. La donna sa che per un nero vivere da quelle parti è ancora più difficile che nel resto del Paese, ma cerca di tenere suo figlio al riparo dalla violenza grazie alle sue mille raccomandazioni – «non rispondere male ad un poliziotto che ti ferma per strada…» – e a un’esistenza da ceto medio costruita con lo studio, l’amore per la natura, le amicizie nel quartiere.
Un universo per certi versi protetto che inizierà pian piano a sgretolarsi quando proprio accanto alla casa di Valerie si trasferisce la famiglia di Brad Whitman, il proprietario dell’omonima ditta di climatizzatori, un self-made man divenuto una star delle tv locali, che ha imposto alla figlia Juniper un «programma» di castità prematrimoniale presso una chiesa evangelica del luogo: un uomo abituato ad ottenere sempre ciò che vuole grazie al potere e al denaro, lui che cresciuto povero sugli Appalachi oggi va al lavoro in Maserati. I lavori, in parte abusivi, per la costruzione della lussuosa villa dei Whitman intaccano le radici della vecchia quercia e quando Valerie cerca di far valere le proprie ragioni, la reazione di Brad sarà selvaggia: sfrutterà a suo vantaggio in modo terribile l’amore sbocciato nel frattempo tra Xavier e Juniper, innescando un meccanismo destinato a concludersi in tragedia.
Dopo due romanzi dedicati rispettivamente a Zelda Fitzgerald e a Alva Vanderbilt, Therese Anne Fowler descrive in Un bel quartiere (Neri Pozza, pp. 364, euro 18, traduzione di Ada Arduini) il volto ordinario del pregiudizio, in una storia dove gentrificazione, sessismo e razzismo si intrecciano finendo per comporre il ritratto del modello di società che Donald Trump ha proposto all’America negli anni scorsi.
«Un bel quartiere» parla prima di tutto del razzismo verso gli afroamericani, ma anche del modo in cui le giovani donne possono essere soggiogate utilizzando la religione. L’intera vicenda muove però da un’aperta sensibilità ambientale. Come è nata la storia?
Tutto è cominciato con una quercia morente nel mio giardino un paio di anni fa. La costruzione di un ampio vialetto di accesso per la casa che stavano tirando su accanto alla mia aveva danneggiato irreparabilmente le radici dell’albero e io ero sconvolta: quella vecchia quercia era uno dei motivi per cui avevo deciso di comprare la casa. In quello stesso periodo quasi ogni giorno arrivava la notizia di una nuova violenza perpetrata ai danni di un uomo o una donna neri da parte di un poliziotto o di un altro cittadino ed ero angosciata dal fatto che la leadership del mio Paese stesse minimizzando, se non incoraggiando tutto ciò. L’amministrazione Trump riduceva le norme a tutela dell’ambiente e contemporaneamente cercava di limitare i diritti delle donne e di tutte le minoranze. Era un periodo davvero buio e volevo fare qualcosa di più che protestare o sostenere economicamente un’associazione che lo meritasse, anche se ho continuato a fare anche questo. Volevo agire in modo efficace e ho pensato che avrei potuto farlo sfruttando il mio lavoro e la possibilità, per quanto minima sia, di influenzare gli altri con ciò che scrivo: il romanzo è nato così.
La svolta drammatica della storia arriva a due terzi del libro, come se lei avesse voluto abituare il lettore ad una «normalità minacciosa». Una scelta che traduce quanto accade nella vita reale: il fatto che l’esistenza di un nero può essere stravolta in qualunque momento?
Mentre scrivevo, ero consapevole fin dall’inizio di come le cose sarebbero andate a finire. Prima che la tragedia prendesse corpo volevo però che i lettori si cullassero in quella spensieratezza confortante nella quale si muove la maggior parte dei bianchi in America, mentre accanto a loro c’è chi è costretto a notare con grande attenzione ogni piccolo cambiamento del contesto. Quando nella vita reale qualcosa va storto o volge al peggio, spesso si è spinti a pensare che la tragedia fosse imprevedibile o inspiegabile, mentre invece i fattori che producono la violenza e le discriminazioni razziali sono endemici negli Stati Uniti, per capirlo basta che si presti loro attenzione. Proprio questa consapevolezza è del resto alla base dell’esperienza afroamericana di desiderare e sforzarsi di vivere in una normalità per quanto possibile rassicurante – come cerca di fare Valerie – pur essendo vulnerabile di fronte allo scoppio improvviso di una crisi che trae origine solo dal colore della pelle delle persone.
Valerie è attenta alle trasformazioni del suo quartiere, ai processi di gentrificazione e a ciò che portano con sé. E in effetti si ha l’impressione che si tratti spesso di un modo per nascondere il riemergere dei vecchi pregiudizi quando non esplicitamente del razzismo.
In generale, gli americani sono un popolo a cui piace dimenticare la propria storia quando non corrisponde al modo che hanno di rappresentarsi come buoni e giusti. Amano credere che visto che sono stati fatti alcuni passi in avanti, si può pensare che «tutto il lavoro» sia stato fatto e che il razzismo possa essere considerato come una cosa del passato. Così, la gentrificazione è spesso rappresentata come se dovesse essere una marea che solleva tutte le barche quando in realtà è più spesso una pratica che perpetua e incoraggia le forze che stanno alla base del razzismo, negando allo stesso tempo che quelle forze esistano e svolgano quella funzione.
Il romanzo è ambientato in North Carolina, nel cuore del vecchio Sud, avrebbe potuto ambientarlo facilmente altrove o permangono delle differenze significative da questo punto di vista all’interno del Paese?
Dal momento che il tema della «razza» gioca ancora un ruolo più acuto nel Sud che in altre parti d’America, questa particolare storia probabilmente non funzionerebbe ambientata che so a Denver, in Colorado, dove la storia e la cultura del luogo non sono influenzate dagli effetti combinati della schiavitù e del Cristianesimo evangelico sudista. Del resto, uno dei motivi per cui Valerie non potrà prevedere la reazione selvaggia di Brad quando lei vorrà far valere i suoi diritti (sulla quercia) è perché è nata e cresciuta nel Midwest, in un ambiente culturale progressista e molto più misto dal punto di vista razziale e non si aspetta che il suo vicino voglia dominare la legge come lei stessa.
A narrare la vicenda è una voce collettiva, quella del quartiere che assiste con incredulità, partecipazione, empatia e con i propri pregiudizi a quanto avviene: un «coro» che rappresenta la società americana?
Volevo coinvolgere intimamente i lettori, farli sentire parte della comunità di Oak Knoll in modo che la tragedia li colpisse in prima persona. Narrare la vicenda attraverso un «coro greco» incoraggia la partecipazione agli eventi. Ed è particolarmente efficace per le storie che hanno lo scopo di provocare cambiamenti nel pensiero e nei comportamenti delle persone. Penso si possa dire che il «noi» nella storia abbraccia ampiamente la società americana, anche se nella stesura del libro avevo in mente solo la comunità di quel luogo.
Anche al di là del caso di Amanda Gorman che ha chiesto di non essere tradotta da un bianco, il tema della differenza tra chi scrive e i soggetti descritti è al centro del dibattito. Lei non sembra essersi posta il problema, visto che la protagonista, Valerie, è nera. Come ha affrontato la questione?
In realtà il mio romanzo ha più protagonisti, sia bianchi che neri e a narrare la storia è un’intera comunità piuttosto che un singolo personaggio, malgrado – è vero – io tenga in grande considerazione il punto di vista di Valerie. Ciò detto, la mia posizione è che gli autori dovrebbero sentirsi liberi di scrivere ciò che vogliono, e se scelgono di scrivere «al di fuori» della propria cultura dovrebbero sforzarsi di farlo con rispetto, umiltà, consapevolezza e precisione. Allo stesso tempo, l’industria editoriale dovrebbe acquisire più romanzi scritti da non bianchi. Ma questo non è né dovrebbe essere un confronto a somma zero.
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