Visioni

Thee Sacred Souls, note da profondo mondo soul

Thee Sacred Souls, note  da profondo mondo soulThee Sacred Souls – foto di Gustavo Olivares

Incontri Il trio americano in tour e con un nuovo album in uscita in autunno «Got A Story To Tell»

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 9 agosto 2024

Suoni e atmosfere senza tempo accompagnati da note vellutate e voci dalle grandi capacità armoniche. Il trio dei Thee Sacred souls torna in pista il prossimo 4 ottobre con un secondo album Got A Story To Tell per i tipi della Daptons Records, interamente scritto, registrato e composto dai tre membri fondatori della band Alejandro Garcia, Salvador Samano e Josh Lane, con il supporto di amici e turnisti come Larry Rendon al sassofono, Riley Dunn al piano, Shay Stulz alla chitarra, Astyn Turrentine e Viane Escobar ai cori. Archi e chitarre dai suoni acutissimi sembrano stridere fra di loro, in realtà reggono eccome al ripetuto ascolto. Il trio californiano suona insieme ormai da diversi anni – un passaggio italiano in un live milanese – a fondarlo i giovani Garcia e Samano ai quali , in una fase successiva, si è aggiunto Lane. La band conta sei milioni di ascoltatori mensili su Spotify e oltre 250 milioni di stream totali sulla piattaforma e la loro Can I Call You Rose? ha fatto da colonna sonora a quasi un milione di post tra TikTok e Instagram. Tra i loro fan ci sono anche SZA, Alicia Keys e Leon Bridges.

Quello che sorprende nel vostro stile e nel vostro approccio alla scrittura, è il tentativo di fondere le armonizzazioni vocali del soul anni sessanta alle aperture strumentali tipiche della scuola dei settanta. Celebrazione del passato ma anche immersione nel presente. Da dove nasce l’idea della band?

Beh, il nostro sound è in gran parte dovuto all’educazione che abbiamo ricevuto. Siamo cresciuti ascoltando la musica soul, poiché veniva sempre suonata in casa. Anche il fatto di essere originari della California del sud ha avuto un enorme impatto sul nostro background. Abbiamo tutti trovato la strada per tornare alle nostre radici musicali dopo aver suonato in diversi progetti e gruppi durante la nostra adolescenza.

Rispetto al primo disco si nota un sound più compatto e – se fosse possibile – una ricerca sempre più varia sulla parte ritmica. Una scelta voluta o una maturità cresciuta attraverso l’attività live?

Penso che la maturità del suono derivi dal fatto di proporci dal vivo in molti più concerti e dallo scavare più a fondo nelle influenze musicali. Ascoltavamo molta world music e anche delta blues che raccontano storie di solitudine e angoscia davvero sentite e vulnerabili. Sentivamo il peso di essere sempre in viaggio e lontano da casa, quindi l’unico modo per creare uno spazio sicuro era comporre canzoni ogni giorno. Quell’etica del lavoro, imporci di scrivere sempre senza saltare ogni singolo giorno, ha portato a un suono decisamente più maturo.

La vostra scelta musicale è in controtendenza: se la black music è per buona parte composta da brani hip hop, voi rappresentate quella che verrebbe definita una nicchia. Eppure contate sei milioni di ascoltatori mensili su Spotify e oltre 250 milioni di stream totali sulla piattaforma. Come vi spiegate questo fenomeno?

Penso che le persone gravitino sempre intorno all’onestà. La nostra musica viene dal cuore e parla a persone di tutte le età. Siamo molto fortunati ad avere un pubblico che ci supporta, molto eterogeneo.

«My heart is Drowing» è uno dei pezzi più originali del disco, echi di musica giamaicana e vocalmente l’impostazione legata ai gruppi femminili dei settanta. Come mai questa scelta?

Stavamo cercando di evocare il suono di gruppi femminili dei primi anni ’60 o di artiste in voga all’epoca come Mary Wells e Nella Dodds. La produzione di quegli album era incredibile, «un muro del suono» estremamente attuale anche a distanza di tempo. Ascoltiamo molta musica rocksteady giamaicana degli anni ’60, quindi abbiamo immaginato che sarebbe stato bello includere alcune di quelle armonie. My heart is Drowing è una canzone decisamente inquietante, ma l’abbiamo resa dolce alla fine con il cambio di progressione di accordi.

Voi incidete tutte le vostre composizioni su nastro: perché ritenete che la registrazione analogica sia fondamentale per il vostro sound?

Il nastro è l’unica strada per ottenere quel suono degli anni ’60/’70 che tutti noi amiamo così tanto. Il nostro produttore Gabe Roth è un mago in studio e conosce quei registratori in ogni minimo particolare. Ha un enorme impatto sul nostro sound. Ha una mentalità diversa dalla nostra, ma funziona benissimo negli arrangiamenti dei brani. Mette solo ciò che è necessario, nessun orpello extra.

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