È stata pubblicata una versione migliorata di The Witcher 3: Wild Hunt. Ripercorrere, a oltre sette anni di distanza, i sentieri del Velen, una delle regioni narrate nel gioco, mi ha fatto riflettere sul modo in cui discutiamo dell’open world, soprattutto in relazione al rapporto che, grazie a questa meccanica, lega l’interattore con lo spazio che lo circonda.

Qualche anno fa, l’esplosione del genere Soulslike, unita forse al recupero, in alcune nicchie di appassionati, di generi come il Metroidvania, ha rimesso al centro del discorso videoludico il “level design”. Eppure, il grande fraintendimento di quel concetto, o meglio, il problema della sua diffusione priva di un tessuto critico capace di comunicarla a dovere, è stata la sua trasformazione in “idolo”, in simbolo da seguire a prescindere dall’intenzione progettuale dietro al gioco.

Il risultato di questo processo è che oggi è molto difficile discutere di open world senza assumerne una qualche natura “da parco giochi”, la presenza di una struttura ludica finalizzata alla creazione di un “feedback loop” basato su completamento di missioni prive di profondità, accrescimento di potenza e sfogo di quest’ultima sui nemici più vicini. Ma anche, anzi forse soprattutto il level design del soulslike può (e spesso ottiene) creare questo ciclo.

Il punto è che il level design impone la costruzione di un rapporto tra chi gioca e lo spazio giocato che può variare radicalmente a seconda del desiderio espressivo di chi progetta quel mondo. The Witcher 3: Wild Hunt è stato un gioco che ha segnato a lungo il discorso videoludico, perché (prima di Red Dead Redemption II o The Legend of Zelda: Breath of the Wild) in un periodo in cui l’open world sembrava soffocato dall’idea di dover offrire “contenuto” in ogni suo istante, il gioco di CD Projekt Red lasciava respirare la mente dell’interattore, permettendogli di vagare per qualche secondo, di fantasticare sui mondi che stava percorrendo.

Paradossalmente, credo che la capacità di astrarci dal virtuale mentre lo si sta percorrendo sia una delle strategie più efficaci per costruire quella sensazione “dell’esserci” che così febbrilmente il videogioco tutto cerca spesso di innescare.

Mentre molte altre esperienze cercavano dunque di ricordarci in ogni loro istante che stava “avvenendo qualcosa” di memorabile, The Witcher 3: Wild Hunt aveva capito che erano proprio quelle brevi cavalcate, accompagnate da suoni ed estetiche già squisitamente malinconiche, a farci credere per qualche istante in quel mondo. Non nel senso dell’immersione o del realismo, due concetti tanto importanti quanto inutili nell’industria videoludica: ci fa credere di essere in uno spazio col quale ci stiamo relazione, che stiamo vivendo, e che su noi ha effetti simili a quelli che il reale produce sul modo in cui ragioniamo e agiamo.

Bastò poco a The Witcher 3: Wild Hunt per segnare la strada futura: l’esperienza, nel suo complesso, era (e rimane) comunque colma di missioni contraddittorie, problemi di scrittura, riempitivi primi di profondità e rappresentazioni al limite del farsesco. Eppure, altri giochi hanno dovuto riconoscere che forse annichilire la mente dell’interattore per l’intera durata dell’esperienza può produrre immediate reazioni di soddisfazione, ma causare un’immediata perdita di memoria di ciò che quell’esperienza ha significato. Forse perché, spesso, non significa nulla.

Per questi motivi, bisognerebbe giocare a The Witcher 3: Wild Hunt più come un pezzo di storia che come nuova esperienza, e proprio per questo la versione originale è forse la più adatta per permetterne una comprensione più completa.

Al contrario, se siete già “stati” in quel mondo, potrete esplorare ciò che la vostra mente ricorda di quegli spazi, interrogandovi sul se, o quando, siate passati da quel ponte, o per quel viale inalberato.