Di cosa parla The Whale, il film per cui Brendan Fraser è tra i possibili candidati agli Oscar nella migliore interpretazione maschile? Di un uomo chiuso in casa che ha deciso di abbandonare il mondo ammazzandosi un po’ alla volta di cibo. Il suo corpo è grasso, sfatto, malato, distrutto da questa ostinata ossessione di obesità mortale. Fine consapevole, perseguita, cercata come calvario, e non come suicidio istantaneo. Non è la prima volta che il regista, Darren Aronofsky, mette al centro il corpo come luogo su cui scrivere le sue storie: anzi, questa scelta attraversa i suoi film, pensiamo a The Wrestler (2008) di cui era magnifico interprete  Mickey Rourke al suo contrario, il Cigno nero (2011) di perfezione corporea danzante sempre sino alla morte – perché in fondo questi corpi ama crocifiggerli, dargli quella sofferenza che come regista può permettersi di assegnargli, privandoli di desiderio, o meglio lasciando coincidere il desiderio con la loro distruzione. Ma Fraser non è Mickey Rourke che contrastava con il suo sfascio reale, e dolcissimo, la messinscena sempre un po’ leziosa di Aronofsky. Qui è tutto finto, questo grasso eccessivo della «balena» – con cui gioca il titolo accennando alla fisicità del personaggio e a Moby Dick tra i suoi titoli di riferimento – è appunto falso, una corazza da effetto speciale (ottenuta con trucchi prostetici) che soffoca la sua verità nonostante le centinaia di chili di cui l’attore si fa carico, e la sua fragilità che sembra perdersi dentro a questa massa incontenibile. E non è davvero questione di «verosimiglianza»: è che il falso risuona nel sentimento con cui ci viene restituito questo personaggio, nel suo disgusto verso se stesso talmente calcato da risultare vuoto.
Charlie è docente di letteratura inglese, insegna solo online negandosi alla vista degli studenti con scuse svariate ogni volta. Così come si nega al rider che gli porta ogni giorno quintali di pizza, vergognandosi del suo aspetto che continua a ripeterlo è «disgustoso». Intorno una costellazione di sensi di colpa, famiglia, chiesa, repressione, omofobia, vorrebbe essere il melò dell’America chiusa tra le pareti di una casa – all’origine c’è un dramma del commediografo Samuel D. Hunter che firma la sceneggiatura), risulta una cartolina sfocata di un’altra mortificazione.

TRA UNA conversazione e l’altra scopriamo che l’uomo, omosessuale, ha una figlia che lo detesta, poi c’è un ragazzino che vuole convertirlo a una qualche setta cristiana, e infine c’è l’amica e infermiera che lo cura, la sola che sembra essergli davvero vicina. C’era un amante, un compagno, l’uomo della vita, che non ha retto lo scandalo e il senso di colpa di essere credente e gay e perciò si è ammazzato. Lo ha fatto in una sola volta, lui che deve espiare , lo fa nel tempo: più dolore, più cristologia.

CHE DIRE? Come spettatori si finisce ugualmente intrappolati in questo rito sadomasochista ammorbante, in quegli interni circoscritti al solo divano da cui il personaggio fa fatica a alzarsi, e soprattutto a quel corpo filmato, esibito ma sempre senza vita, senza sussulti, senza il bisogno di un’ambiguità che scivoli oltre la parola. Il regista rimane distante, questo suo teatro del corpo mai politico diviene esibizione, illustrazione dei luoghi comuni un po’ abusati su cui sovrasta costante e continuo quel sentimento della colpa, e nella sfida con la bibbia continuamente evocata, a perdere è proprio Melville.
Quello che è più fastidioso il l sentimentalismo che a qull corpo fasullo viene chiesto di produrre, un’emozione che non esiste in alcuna delle inquadrature, e che non può essere nei nostro sguardi come quel corpo in una guaina pesantissima che nega ogni libertà, del corpo e della visione.