Visioni

The Umbrella Academy, storie di eroi molto poco super

The Umbrella Academy, storie di eroi molto poco superEllen Page sotto il cast della serie

Televisione Parla la trentaduenne attrice canadese, tra i protagonisti della nuova serie targata Netflix tratta dal fumetto firmato da Gerard Way e Gabriel Bá. «Il cuore della vicenda riguarda l’abuso di cui sono stati vittima da bambini. Una metafora per spiegare cosa vuol dire combattere i propri demoni interiori»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 3 marzo 2019
Luca CeladaLOS ANGELES

I super-universi hollywoodiani si stanno riallineando sotto al spinta gravitazionale delle piattaforme digitali. La prossima nascita del servizio streaming in-house della Disney ha messo in rotta di collisione l’impero di Topolino con la corazzata Netflix e si registrano le prime vittime. Per cominciare i contenuti Marvel che passeranno presto sotto l’esclusivo controllo della casa madre Disney. Da qui l’annuncio Netflix della prossima chiusura di Iron Fist, Luke Cage, Daredevil e Jessica Jones, e la necessità di rafforzare le scorte nel comparto comix-supereroico, con nuovi contenuti, come The Umbrella Academy.
La serie, tratta dall’omonimo fumetto firmato da Gerard Way (cantante dei My Chemical Romance) e illustrato da Gabriel Bá, è incentrata su una famiglia di supereroi «orfani». Poco dopo la nascita soprannaturale (ognuno è stato partorito in diverse parti del mondo da donne che non erano state incinta) i bambini – quattro maschi e due sorelle – vengono adottati dall’eccentrico miliardario Sir Reginald Hargreeves che li cresce nella sua grande villa vittoriana. Il vecchio Hargreeves assegna ad ognuno un numero, istruendoli severamente nello sviluppo dei superpoteri. Siamo dunque su terreno narrativo ben frequentato come risulta subito evidente a qualunque patito degli X Men. Nella fattispecie l’accademia dell’ombrello come è denominata la squadra anticrimine composta dai ragazzi, è anche una famiglia disfunzionale comandata da un padre inflessibile al limite dell’abuso emotivo.
La storia apre col ritorno dei figli a Villa Hargreeves dopo la morte del genitore, una riunione di famiglia con tutte le problematiche del caso fra fratelli ormai da tempo su parabole divergenti e in gran parte deludenti rispetto alle difficili aspettative imposte dalla loro precoce super-celebrità. Una saga insomma di eroi molto poco super, delusi dalla carriera e sopraffatti dalla banalità della vita ordinaria. Steve Blackman, lo showrunner proviene dall’esperienza non solo del cyberpunk Altered Carbon e da quella del lisergico Legion, ma anche da tre stagioni di Fargo da cui ha traghettato un ironia dal sapore letterario (Blackman, per dire, cita I Tenenbaum di Wes Anderson fra le ispirazioni per il tono della serie). La trama si mette in moto col ritorno dal futuro di uno dei fratelli – Number 5 – la cui facoltà di trasporto interdimensionale lo ha portato a scappare di casa da bambino e rimanere intrappolato nel futuro per molti anni (ora di anni ne ha 58, molti di più dei «coetanei» pur dimostrando 14 anni fisicamente). Number 5 sa che nel giro di pochi giorni il mondo è destinato a venire distrutto, un apocalisse che deve cercare in tutti i modi tentare di fermare. Sulle sue tracce appare una coppia di temibili sicari spaziotemporali (Cameron Britton e Mary J Blige). Ad ancorare gli strati della trama c’è il personaggio di Vanya, sorella outsider e solitaria, segnata dai complessi di inferiorità. È Ellen Page, attrice che in fatto di superpoteri ha già all’attivo l’esperienza come Kitty Pryde in X Men, nonché l’Arianna nel cerebrale sci-fi onirico di Inception. La trentaduenne attrice canadese sposata lo scorso anno con la compagna Emma Portner è nota anche per l’impegno in cause ambientali e di parità LGBTQ che ha influenzato anche le sue scelte artistiche, focalizzando una militanza che l’ha portata a produrre Gaycation, un programma di viaggi nelle comunità gay del mondo alla coperta della discriminazione e della peresecuzione di cui sono ancora oggetto nel mondo.

Cosa ci può dire di «Gaycation»?

Credo la cosa più difficile sia stato provare il dolore e toccare con mano quanto crudeli gli esseri umani riescano ad essere verso il prossimo. Ha significato capire il livello di trauma che può produrre l’odio sistemico e allo stesso tempo capire la forza e la resilienza di una comunità. Dai sacrifici degli attivisti per la causa, alle persone che rischiano tutto semplicemente scegliendo quotidianamente di essere se stessi. Quelle persone mi hanno insegnato tantissimo ed hanno reso quel programma quello che è – uno strumento per amplificare l’amore ed aiutare chi si sente completamente solo ed isolato nel mondo.

«The Umbrella Academy» è una storia di supereroi?

Si parla di superpoteri ma il cuore della storia riguarda l’esperienza dei personaggi e l’abuso di cui sono stati vittime da bambini. E come spesso accade quei traumi si manifestano nella loro vita da adulti. Credo sia una chiave che possa risultare familiare a un sacco di gente. Cosa vuol dire combattere i propri demoni interiori ed anche i superpoteri in fondo sono una metafora in questo senso.

Chi è il suo personaggio?

I fratelli di Vanya non hanno visto di buon occhio la pubblicazione del suo libro (un autobiografia della famiglia, ndr) ma lei in un certo senso è stata trattata peggio di tutti. Il padre le ha costantemente rimproverato di non essere «nulla di speciale», separandola dai fratelli. Ora che ha trent’anni è depressa, ansiosa e del tutto isolata, senza alcuna amicizia o intimità. Come gli altri sta cercando di elaborare i propri traumi.

Il ruolo le è stato particolarmente affine?

Sicuro, non è stato difficile immedesimarsi specie quando sei cresciuta temendo chi sei davvero. Lo può capire soprattutto chi ha avuto inculcata l’idea che non esistesse futuro se avesse espresso la propria autentica identità – ad esempio se avesse osato rivelare di essere gay. Sembra incredibile ora ma non è stato poi tanto tempo fa (ride, ndr). Crescere da bambina, vittima di bullismi senza speranza che le cose potessero cambiare…E questo è proseguito anche quando ho iniziato a recitare, quando da giovane attrice mi sono trovata in situazioni dove spesso non veniva accordato il rispetto che tutti meriteremmo…

È più facile interpretare personaggi simili a se stessi?

Un personaggio può essere simile o diverso, l’importante è che sia ben scritto, poi la motivazione si trova. Anni fa, appena prima di Juno ho interpretato una giovane repubblicana in un film che si chiamava Smart People. E mi sono detta che se aveva quelle convinzioni era perché doveva aver sofferto in modo davvero atroce (ride, ndr). È stato così che ho dovuto capire il personaggio. In fondo credo che una delle cose più belle di fare l’attore sia poter diventare parte di tutte queste realtà portando ad ognuna un po’ di te stessa. Credo davvero che l’empatia necessaria per capire ed interpretare un personaggio possa ingrandire il cuore e aiutarti a capire gli altri attraverso le loro gioie e i loro dolori.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento