«The Northman», l’origine di Amleth nel ghiaccio d’Islanda
Al cinema Robert Eggers attinge alle fonti pre-shakespeariane della mitologia norrena. Una storia di vendetta e passione con una poetica atemporale
Al cinema Robert Eggers attinge alle fonti pre-shakespeariane della mitologia norrena. Una storia di vendetta e passione con una poetica atemporale
Film dopo film, Robert Eggers continua a presentarsi come il regista statunitense, assieme a David Lowery, più avventuroso degli ultimi anni. Se con il precedente The Lighthouse era incorso nelle ire di quanti gli hanno, ingiustamente, rimproverato il suo intellettualismo e il formalismo esibito provocatoriamente (sbagliando su entrambi i fronti, non cogliendo il senso dell’operazione), con The Northman, attesissimo, il regista dimostra di potere occupare sia lo spazio che fu di un maestro artigiano dello studio system come Richard Fleischer (si pensa ovviamente a I Vichinghi) che alla visione provocatoriamente eversiva e spettacolare che fu di John Milius (Conan il barbaro, prima di tutto). Eggers dimostra che, rispetto ai suoi primi due film, riesce a gestire anche un budget considerevole di 90 milioni di dollari e, allo stesso tempo, realizzare un film che non assomiglia in nulla ai tentpole che garantiscono incassi e franchise.
ESIBENDO spudoratamente una visione e una poetica che dichiara una voluta e orgogliosa atemporalità, così insistita, secondo i suoi denigratori, da rovesciarsi in un conformismo manierista, Eggers danza sulla sottile linea che separa citazionismo, calligrafia e invenzione genuina. Sinora questo gioco gli è riuscito, a nostro giudizio, in maniera esemplare; resta da verificare cosa accadrà con l’annunciato Nosferatu, un altro progetto che sembra essere pensato su misura per lui. Ciò che in fondo intriga di Eggers è la sua fiducia nella narrazione. Nonostante un apparato visivo sempre in primo piano occupi una buona parte della concezione stessa del film (le radici scenografiche di Eggers sono più che evidenti), rispetto a un Tim Burton (se non altro rispetto all’ultimo Burton…), ciò che conta è la tenuta del racconto. Eggers tiene saldamente al centro del suo cinema i personaggi, anche quando il gioco si spinge pericolosamente in avanti come nel caso di The Lighthouse. The Northman non fa eccezione.
CON UN’OPERAZIONE filologicamente interessante, Eggers va alla radice pre-scespiriana del mito di Amleto. Come uno studente un po’ secchione di filologia germanica (ma avercene di secchioni così), Eggers attinge direttamente al Gesta Danorum di Saxo Grammaticus. Amleto torna così ad essere… Amleth. In realtà il danese, pur consapevole delle varie versioni esistenti del mito di Amleto (intrecciatesi persino con fonti latine), risale sino alla sua forma islandese, che è poi l’ambientazione scelta da Eggers. Amleth, il feroce guerriero orfano interpretato da Alexander Skarsgård, diventa così in base all’etimologia del nome (Amlóði) sia una sorta di trickster (un astuto attore che inganna lo zio spacciandosi per un semplice schiavo) che e un fool (uno sciocco che non vede mai la verità che ha sotto agli occhi).
Eggers, consapevole che la diffusione della mitologia norrena deve più alla Marvel e a Neil Gaiman che all’Edda nordica, gioca a tutto campo con un immaginario fatto di corvi (Huginn, il pensiero, Muninn, la memoria), l’albero della vita (Yggdrasill), Fenrir (il lupo), le valchirie, Odino (del quale nell’Edda si racconta che dall’alto seggio vide tutto il mondo), il Ragnarok (la fine di tutto) e via dicendo. Eggers cita con grande piacere il Milius di Conan (Amleth che strappa la spada dalle mani scheletrite del gigante morto… Odino?), l’attacco al villaggio (i guerrieri coperti dalle pelli animali) e, nei piani sequenza rosso fuoco del duello finale, omaggia anche lo scintillante e stilizzato delirio antinaturalistico dell’Excalibur di John Boorman.
LA DIFFERENZA di fondo risiede nella scelta cromatica di The Northman. Laddove il Conan miliusiano è un film caldo, “mediorientale” (Milius stesso vi interpreta un venditore di lucertole arrosto…), The Northman è calato nel gelo del blu, del grigio e del verde. Non solo: se Milius rivendicò la natura artigianale degli effetti speciali (volutamente vecchia scuola), Eggers non rinuncia alla grafica digitale (ed è forse l’unica stonata di un film altrimenti sempre efficace). In omaggio ai tempi, The Northman si offre come una disamina delle radici della “mascolinità tossica” (una sottolineatura didascalica) e rilancia l’asimmetria del desiderio (la regina Kidman rivendica il diritto di non amare il figlio nato in assenza d’amore vero). I tocchi gore e horror sono generosi (Amleth – come il Jack di Von Trier – costruisce una scultura con le membra dei suoi nemici) e Anya Taylor-Joy è semplicemente magnifica. Insomma, Eggers ha dovuto pagare un (inevitabile?) dazio allo spirito dei tempi politicamente corretti per dare corpo a una fantasia di vendetta gonfia di passione e selvaggia furia.
Piccole imperfezioni di tono che in ultima analisi nulla tolgono al piacere di un racconto gestito con grande attenzione formale che osa prendersi il tempo necessario per svolgersi, pur giocando di rimando con un insieme di elementi condivisi, affermandosi sia come spettacolo che visione autoriale. A ben vedere, l’ultima volta che la mitologia nordica è rivissuta sul grande schermo con tale efficacia risale perlomeno al Beowulf di Robert Zemeckis (anche Sir Gaiwan e il Cavaliere verde di Lowery osa forse di più). Eppure: anche Eggers non si spinge così lontano – in fondo il suo film aspira al classicismo – The Northman incarna una possibilità molto interessante del cinema hollywoodiano contemporaneo.
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