Ci sono solo immagini d’archivio, provenienti da varie fonti, in The Natural History of Destruction di Sergei Loznitsa, un lavoro di cristallina potenza che guarda al passato, alla seconda guerra mondiale, per parlare del presente, di altre guerre, di altre distruzioni che possiedono nomi, cognomi, luoghi, ma che al tempo stesso si inscrivono in una devastazione collettiva che annulla le collocazioni geografiche (l’Ucraina, il Vicino e Medio Oriente nelle sue tante aree esplosive, l’Africa sub-sahariana attraversata da molteplici instabilità le quali sembrano non interessare alla maggior parte degli organi d’informazione italiani). Un film, The Natural History of Destruction, radicato nei corpi massacrati di città tedesche e inglesi, che da quelle città fa riemergere folle anonime di persone, esprimendo, senza bisogno di parole a commentare le immagini (ma di musica e suoni sì, ottimamente distribuite per creare un’ulteriore stratificazione della distruzione), l’orrore e la tragedia generati da qualsiasi conflitto, infinite riproposizioni di una identica e perpetrata barbarie. Il film di Loznitsa è stato scelto da Filmmaker per inaugurare (questa sera alle 21.30 al cinema Arcobaleno di Milano) la sua quarantaduesima edizione presentandolo in prima italiana.

PUR SENZA dichiararlo (perché nulla è «dichiarato» in questo meraviglioso esempio di cinema poetico-politico), Loznitsa realizza un film suddiviso in capitoli, basta uno stacco di montaggio un po’ più prolungato per passare da una situazione alla successiva nella costruzione di una narrazione che, tappa dopo tappa, ci immerge nell’inferno della guerra. C’è un sentire didattico nel senso più alto del termine, un respiro rosselliniano che il regista ucraino soffia su delle immagini altrui che, ri-convocate a nuova visione, assumono valenza storica e contemporanea. Loznitsa è ben consapevole che quei materiali pre-esistenti contengono una enorme pregnanza visiva e per questo motivo evita intromissioni verbali.

L’inizio è abitato da scene di vita da un villaggio o da una città, feste in piazza, un fiume che scorre. Eppure le minacce sono presenti nella forma di un dirigibile, di drappi nazisti diffusi, di un ritratto di Hitler di cui gli avventori di un caffè con orchestra sembrano non accorgersi. Mentre lo sguardo si sofferma su statue, edifici, tombe, sculture da fare affiorare dal buio. È il capitolo d’apertura al quale farà seguito uno dei più emozionanti per esperienza sensoriale: la notte (una notte, tutte le notti) illuminata da bagliori nel cielo, lampi visivi e sonori di bombardamenti, esplosioni, in un crescendo dove l’entrata in campo della musica amplifica il senso e l’essere della distruzione che, nei suoi effetti tangibili, per il momento rimane fuori dall’inquadratura. Sono immagini che sanno di avanguardia. E che anticipano quelle seguenti, non più astratte, ma che documentano quello che le bombe hanno prodotto: città incendiate, macerie, soccorsi per spegnere il fuoco e salvare chi ancora si può salvare, esodi in massa dei sopravvissuti. Non sono le uniche, altre immagini, nella parte finale, alcune a colori (il colore aveva già lampeggiato in altre scene), ri-prenderanno il dopo causato dalle devastazioni – e ancor più forte suona l’accusa di Loznitsa a qualunque esercito, potenza militare, paese invasore. In un film che, nel suo corpo centrale, e il più ampio per durata, descrive – di fase in fase, dal laboratorio alla fabbrica fino all’uscita dagli hangar e al volo, e poi ancora le battaglie nei cieli riprese dall’interno dei velivoli, le bombe sganciate – la costruzione di aerei da guerra, mostra nei dettagli il lavoro manuale sui singoli pezzi da assemblare, comprese le munizioni, i caricatori, gli ordigni da spostare e caricare. Quasi un film nel film, un documento scientifico sulla produzione di morte.

IN QUESTA prospettiva, The Natural History of Destruction è un film di terra e di cielo, che scava in quelle immagini di ottant’anni fa per farci sentire, toccare con mano, la distruzione che ha lasciato segni indelebili sul terreno, le strade, i palazzi, con i cadaveri ammassati sui marciapiedi, e per mostrarci i gesti dei soldati che con le loro azioni in volo hanno determinato quanto accaduto. Le città sventrate riprese dall’alto assomigliano a tante altre città di oggi, si pensi solo a quelle ucraine e a quelle siriane (dove la guerra si protrae da oltre dieci anni). Questo film «muto» ha il potere del miglior cinema di non farci chiudere gli occhi.