Il dettaglio dell’occhio di una mucca nel buio, il suo terrore inerme e struggente. Mentre la voce over racconta come, nella concezione intensiva odierna di produzione del latte, le vacche siano l’anello più debole della catena, costrette a gravidanze senza soluzione di continuità, ottimizzate dalla genetica e ipersfruttate, la camera disvela con compassione le loro mammelle ipertrofiche, il peso di una potenza generatrice costantemente violata dagli esseri umani e dai macchinari, ingombro che quasi impedisce agli animali di muoversi, mentre gli spazi claustrofobici delle mangiatoie industriali li relegano a una vita che non conosce più la libertà degli alpeggi.

Vedendo The milk system di Andreas Pichler si è profondamente toccati. Non solo dagli esiti di un documentario d’inchiesta che unisce rigore e vastità di indagine – “voglio sapere da produttori e industriali, contadini e scienziati in che modo il cambiamento di produzione si ripercuota sugli animali, sull’ambiente, sulle politiche e su di noi” – ma da un film cinematograficamente potente, capace di andare ben oltre i limiti talvolta obbligati e un po’ noiosi del genere, rilasciando immagini di rara sensibilità umana e registica.

Tutto comincia con il racconto in voce over delle stesso Pichler: un piccolo ponte tra i monti e il suo apparire un momento mentre beve dall’acqua di un ruscello, accennando la sua familiarità col contesto che si appresta a indagare – da piccolo, originario di Bolzano, era solito portare le mucche al pascolo – cosa che dà un tono più caldo e accorato a tutta la narrazione.

Quindi ha inizio la storia atavica del latte, dalla sua scoperta, 8000 anni fa, nei testi sacri “bianco elisir di lunga vita”, fino alle trasformazioni radicali degli ultimi decenni, segnati dalla globalizzazione e dall’estensione dei mercati (un miliardo di cinesi ha cominciato a consumarlo ed è emerso l’imperativo morale di sfamare il mondo), dall’allevamento intensivo con conseguente aumento esasperato della produzione, dall’abbassarsi dei prezzi e dalle compravendite selvagge.

Stritolati così dalle decisioni spesso astruse e lontane prese a Bruxelles dalla Ue, dall’ombra enorme delle lobby delle multinazionali, e dalle latterie, gran parte dei contadini, per esempio in Danimarca o in Germania, si sono trovati con le spalle al muro (a Bruxelles si osserva un minuto di silenzio per quelli che si sono suicidati in Francia…), costretti a una produzione esasperata, a scapito delle condizioni di vita degli animali, ridotti a cose da spremere allo sfinimento: fine dei pascoli all’aperto, uso di robot da mungitura, ricorso alle gravidanze forzate, eliminazione progressiva dei maschi, perché economicamente inutili, fino ai contesti come quelli della Fiera di Cremona, dove si possono vedere mucche con code cotonate e mammelle lucidate…

Ma questa grande corsa compulsiva alla produzione di latte e suoi derivati, con sili su sili, chilometri di tubi e rulli che sfornano tetrapak, mentre la camera sottolinea i meandri geometrici della geografia industriale, si riverbera sull’ambiente in un domino negativo di macro dinamiche: perché ciò che le mucche mangiano non è più solo erba, ma soia proveniente dal Sud America e causa non solo della deforestazione di buona parte delle foreste pluviali, ma anche dell’infiltrarsi nei terreni di sostanze nocive, trasformate poi in nitriti cancerogeni dal nostro corpo.

A fronte di tutto questo sistema, Pichler si domanda dunque quanto il latte prodotto in queste condizioni sia veramente sano. E innanzi a pubblicità che ovunque nel mondo inneggiano alle eccezionali doti nutritive dei latticini e sulla necessità di consumarne tre porzioni al giorno – in Cina una delle molle su cui si fa leva è la promessa di crescere in altezza – colloquia con Walter Willet di Harvard, lo studioso più citato nel campo, il quale afferma che è ragionevole fermarsi a due porzioni, e non nasconde il rischio, in caso di consumo eccessivo, di alcune tipologie di tumore, come quello alla prostata.

Ma in questo puzzle di fattori e strutture più che preoccupanti è questa l’unica via di produrre, si tratta di un meccanismo senza alternative? In realtà, tornando ancora ai luoghi amati dell’infanzia, The milk system sa trasmetterci i ritmi rilassati e la filosofia produttivo-esistenziale di una piccola azienda biologica a Malles, Venosta. É qui che risentiamo lo scampanio, il muggire sano delle mucche, dall’alto i loro tracciati come ghirigori sulla terra verde. Mentre Alexander, il proprietario dell’azienda, propone che l’agricoltura sia affidata anche a filosofi ed ecologisti, e che si torni a capire la terra.

Pichler ci guida così in un viaggio a differenti latitudini, tra i corridoi stranianti degli stabilimenti colossali in Cina, fino alle riunioni tra i piccoli allevatori di Dakar che, oppressi dalla concorrenza dal latte in polvere proveniente dalla Ue, non sanno come andare avanti mentre i loro figli scappano sui barconi.

Estetica e politica creano dunque nel film un magnifico connubio, tanto che il documentario è tornato in sala dal 23 gennaio dopo gli esposti di Assolatte e Coldiretti, che ne avevano bloccato temporaneamente la diffusione (è necessario prenotare i biglietti su movieday.it) – Dal latte in poi, il suo sguardo si irradia ad abbracciare amplissimamente il nostro mondo, adombrando come anche il più piccolo gesto verso un filo d’erba sia cruciale. Anche a dire chi siamo.