Dal gioco alla serie
di Federico Ercole

Il Cordyceps, fungo ormai più famoso di quelli dei puffi o del porcino da tagliatella, deve la sua popolarità originale ad un episodio di Planet Earth (serie di documentari naturalisti della Bbc) dal terrificante titolo «attack of the killer fungi», che vede quest’inquietante micete come protagonista.

Le immagini commentate da David Attenborough mostrano questo fungo parassita infettare con le sue spore uno specifico insetto (ognuno ha il suo cordyceps) per farlo poi farlo «impazzire» e morire fiorendo sulla carcassa con effetti grotteschi. Si tratta di una visione affascinante quanto orripilante ma, conclude Attenborough, il Cordyceps ha una sua utilità nell’equilibrio ambientale perché «come una nemesi» attacca le specie la cui diffusione risulta eccessiva.

Inoltre il Cordyceps è utilizzato nella medicina orientale con diverse conseguenze benefiche, sia come afrodisiaco che per rafforzare le difese immunitarie; volendo lo si può trovare anche in polvere per utilizzarlo nella preparazione di una qualche esotica prelibatezza vegana.

Tuttavia la fama, ma soprattutto l’infamia, del Cordyceps è esplosa nel giugno del 2013 quando Naugthy Dog, ispirata da Planet Earth, pubblicò su Playstation 3 quel suo discusso ma indubbio capolavoro post-apocalittico che è The Last of Us, videogame d’avventura che ci narra del catastrofico trascorrere del «fungo assassino» dagli insetti all’essere umano, utilizzando questo macabro preludio per dare vita ad un racconto tra Matheson, McCarthy e Steinbeck, una storia avvilente ed entusiasmante in un mondo afflitto da pseudo-zombie fungini di varia mutazione, predoni, cannibali ed militari nazificati.

Un racconto «on the road» che verte sul rapporto affettivo tra il maturo e grave Joel e l’adolescente Ellie. Si tratta di un videogame assai doloroso, persino disturbante da giocare, seguito nel 2020 da una gigantesca seconda parte, ancora più estrema nella dialettica emozionale con l’etica del giocatore.

In questi giorni si è conclusa la serie in nove puntate di Hbo qui da noi visibile su Sky che ha trasformato, con una variabile ma ispirata fedeltà il primo The Last of Us per adattarlo al piccolo schermo, un’opera della quale si è occupato come autore lo stesso Neil Druckmann di Naugthy Dog assieme a Craig Mazin, già responsabile della serie Chernobyl.

Si tratta di un’eccellente televisione, non di cinema perché c’è più cinema nei tempi e nelle immagini del videogioco, salvo qualche raro momento che allude ad una grandiosità panoramica propria del western e non è perché lo vediamo sulla tv, poiché anche le 18 puntate del terzo Twin Peaks passano per il piccolo schermo ma si rivelano come un lungometraggio fluviale.

E il fatto che la serie di The Last of Us non sia cinema ma televisione, non un film ma un telefilm appunto, non va considerato in maniera dispregiativa, anzi ce ne fosse di televisione così valida nell’interpretare le regole e le ritmiche adeguate a questa tipologia di visione, infrangendo inoltre le aspettative più pedisseque dei «fan» del videogioco per consegnarsi anche ad un pubblico ignaro, senza tradire tuttavia lo svolgimento narrativo dell’originale o la sua straordinaria, terribile conclusione.

La serie di The Last of Us ci rivela raramente il mostro, si perde in lunghe, liriche derive, storie d’amore struggenti sull’orlo della fine che occupano l’intero spazio di una puntata come nella terza o nella settima. Ci sono una dilatazione della tragedia umana e una contrazione di quella apocalittica e spettacolare, risultando così un’opera che è spesso intimista, lenta ed elegiaca.

In queste circa nove ore di immagini e racconto piano e dolente sono assai preziose le interpretazioni degli attori, i cui volti si sovrappongono a quelli dei protagonisti del videogioco senza violenza ma con affinità malgrado la somiglianza non sia ricercata, persino negata soprattutto per la straordinaria Ellie interpretata da Bella Ramsey.

Il Joel del notevole e ispirato Pedro Pascal risulta più sofferente, persino debole e fragile di quello del videogioco, così che durante i momenti in cui infine esplode la sua furia egli si dimostra più disperatamente umano, consapevole della sua follia omicida, togliendo al giocatore che lo ha controllato (e si è fatto controllare) nel gioco il peso delle sue gravi, persino scellerate colpe, assolvendolo da ogni responsabilità per accollarsele come peso proprio, un fardello atlantico. A tendere un ponte emozionale con chi ha esperito il videogame, traumatizzato talvolta dalla passività della visione, contribuisce invece la musica di Gustavo Santaolalla, affine in maniera rigorosa nel timbro e nell’umore a quella che ha composto per il The Last of Us interattivo.

Utile per dimostrare ad un pubblico televisivo il valore e l’importanza che ha il racconto nel videogioco, la serie di The Last of Us riassume con arte quel micidiale vuoto di speranza che esprime la sua fonte, un terrore che è solo per caso scatenato dal mostro ma che risiede in un’umanità che non cambia e non si evolve, ribadendo e ripetendo i suoi tragici errori, continuando ad armarsi e farsi la guerra come branchi di scimpanzé che celebrano la vittoria maciullando i piccoli cadaveri dei cuccioli nemici.

Potremmo quasi ipotizzare che l’unica speranza, almeno per il pianeta, sia lo stesso Cordyceps come lo è per l’ecosistema di una giungla, un’ipotesi disumana e cinica che sorge dall’orrore umano troppo umano che emana dal corpo martoriato di The Last of Us, d’altronde gli infetti non si fanno la guerra, non diventano cannibali.

Eppure, persino tra l’orrore più nero e nella più angosciosa miseria, in The Last of Us riluce una speranza di cambiamento, vaga e flebile, consumata in brevi attimi d’amore. La speranza di una fiammella che si estingue all’aria di un respiro affannato, permanendo nel ricordo di un fumo effimero, sopita da quell’egoismo incurabile che affligge l’essere umano e con il quale talvolta si confonde, con esiti drammatici, l’amore.

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Il grande Altro: distopie e utopie fungine

di Giulia Martino

Il naturalista Linneo, nel Settecento, lamentava che la classificazione dei funghi era «un caos». Ai nostri giorni le cose non vanno meglio, con continui cambi di nomenclatura e nuove scoperte che rivoluzionano il mondo degli studi micologici a cadenza rapidissima. I videogiochi non sono stati a guardare, e spesso il fungo viene presentato come «grande Altro» protagonista di narrazioni di matrice solitamente distopica. È il caso di The Last of Us, certo, ma anche di tantissime altre produzioni: giusto per fare due esempi molto vicini nel tempo, nel recentissimo gioco di ruolo Chained Echoes un fungo è riuscito a divorare un intero continente; in Elden Ring, che ha compiuto un anno giusto pochi giorni fa, un misterioso micete è intento a colonizzare l’Interregno, dominando i corpi e le anime di alcuni fra i suoi abitanti più potenti. Il fungo si fa così protagonista di narrazioni che evidenziano la sua natura ambigua, la sua capacità di «fare rete» contro gli esseri umani, il suo potenziale distruttivo per l’ambiente e per gli esseri viventi che lo abitano, popolando mondi distopici in cui il disastro fungino è dietro l’angolo.

Talvolta, il fungo assurge a simbolo dell’ultima frontiera davanti alla fine: è il caso della muffa che riesce a colonizzare i margini del «pale», sostanza che nel giro di qualche decennio divorerà il mondo nel videogioco Disco Elysium, prodotto da ZA/UM. Insomma, la galassia fungina non passa inosservata, ma – come spesso accade – attira l’attenzione più in narrazioni di matrice allarmistica (The Last of Us su tutte) che in storie che guardano al potenziale salvifico dei funghi, protagonisti, nel nostro mondo, di operazioni di «micorisanamento» (esistono miceti capaci di decomporre sostanze altamente inquinanti, come ad esempio il petrolio) ma anche di ricerche scientifiche che mirano a sconfiggere malattie come la depressione e il cancro. Ecco, allora, che il fungo videoludico si fa portatore di visioni dalla carica utopica: in In Other Waters, i funghi del pianeta alieno esplorato da una scienziata e dall’intelligenza artificiale contenuta nella sua tuta si dimostrano capaci di «correggere» i danni causati al pianeta dall’intrusivo intervento umano; in Citizen Sleeper (prodotto dal medesimo autore di In Other Waters, Gareth Damian Martin) la stazione spaziale Erlin’s Eye ospita un giardino destinato alla crescita di coltivazioni fungine, in alcuni casi capaci di rispondere ai bisogni degli esseri umani e dei robot che ospitano coscienze umane (gli «sleeper») e di produrre sostanze benefiche per la loro salute; in Solar Ash, gli organismi defunti non muoiono mai davvero, ma si uniscono nell’abbraccio del network formato dal micelio fungino, quel «wood wide web» tanto studiato dagli scienziati e responsabile delle comunicazioni e degli scambi di sostanze nutritive che avvengono tra piante e funghi nei nostri boschi.

Spesso queste narrazioni positive (e propositive) sono contenute in piccole produzioni indipendenti, capaci di dimostrare una profonda attenzione al progresso scientifico e alle più recenti scoperte nel campo micologico, che – lo dicevamo poc’anzi – non cessano mai di stupire. In un mondo piagato dai cambiamenti climatici e da problematiche ecologiche di vario genere, la scienza ha gli occhi puntati verso il regno dei funghi, il più complesso da studiare e classificare. Decompositori e ricompositori per eccellenza, capaci di nutrirsi di fondi di caffè, filtri usati di sigarette, pannolini sporchi, petrolio, lignina e molto altro ancora, i funghi stanno fornendo risposte a molte esigenze umane: pochi giorni fa, la rivista un team di ricercatori dalle colonne della rivista Science Advances ha proposto l’utilizzo di un fungo responsabile della carie bianca del legno, Fomes fomentarius, per la sostituzione dei materiali plastici. I test compiuti dagli scienziati sono incoraggianti; questo fungo, d’altronde, ha da sempre attirato l’attenzione dell’umanità: un pezzettino di Fomes è stato rinvenuto nella borsa dell’uomo del Similaun, Ötzi, che lo usava come esca per accendere il fuoco. In un’epoca in cui numerosi enti ed organizzazioni avvertono che il disastro ecologico potrebbe essere imminente – in questo senso, il nome scelto dagli attivisti di Ultima Generazione è particolarmente significativo – i funghi, sia reali sia videoludici, possono aiutarci a immaginare un domani caratterizzato dalla cooperazione tra forme di vita e da un approccio lungimirante e rispettoso dell’ambiente.

Colpo di coda del neoliberismo micofobo

di Matteo Lupetti

«L’autore di questo articolo, un vicepresidente a JP Morgan, insieme a sua moglie Valentina P Wasson, pediatra a New York, ha speso le ultime quattro estati nelle remote montagne del Messico. Gli Wasson erano sulle tracce di strani e finora mai studiati funghi capaci di proocare visioni a chi li consuma».

Così inizia un articolo scritto dal banchiere Robert Gordon Wasson e pubblicato sulla rivista statunitense Life nel 1957, il primo testo diffuso nel nord globale dedicato agli usi tradizionali di funghi dalle proprietà psicotrope da parte delle popolazioni indigene dell’America Latina. In questo stesso articolo, che contribuì all’inizio dell’era della psichedelia, Wasson sostenne che le culture indo-europee si dividono tra quelle micofile, come quella russa da cui proveniva la moglie, e quelle micofobe, come quella anglosassone da cui proveniva lui. «Cioè, ogni popolo o rifiuta completamente e ignora il mondo dei funghi o lo conosce incredibilmente bene e lo ama».

Wasson andò oltre, teorizzando che tale venerazione e tale timore del fungo fossero vestigia di un culto primitivo a base di funghi allucinogeni, forse origine di ogni spiritualità. Un’idea basata su un’antropologia razzista che guardava alle popolazioni altre come stadi precedenti della nostra evoluzione culturale e che era già ampiamente superata all’epoca, come racconta Andy Letcher in Shroom: A Cultural History of the Magic Mushroom (Faber & Faber, 2006). L’impresa di Wasson era inoltre finanziata (senza che egli lo sapesse, pare) dalla CIA come parte del programma segreto MK-Ultra, alla ricerca di modi di manipolare la mente umana. Per quanto la metodologia e le teorie di Wasson siano ormai state screditate, trovo interessante l’intuizione che in quelle culture influenzate dal capitalismo anglosassone (tra cui la nostra) esista o sia almeno esistito per un certo periodo un atteggiamento micofobo. Micofobia che è stata anche causa di disinteresse. Fino all’intervento dell’ecologo Robert Whittaker nel 1969 i funghi non erano neanche comunemente riconosciuti come un regno separato da quello delle piante. E ancora oggi, nonostante l’importanza dei funghi nella formazione del suolo, alla loro conservazione non viene data importanza, come lamentato di recente sul Time dalla micologa Giuliana Furci e dal biologo Merlin Sheldrake. Parliamo di «flora e fauna» e dimentichiamo la terza F, quella di «funghi».

La micofobia dell’ideologia egemone mi pare ben dimostrata dalla rappresentazione largamente negativa che i funghi ricevono nelle opere a lei più vicine, e i funghi zombie di The Last of Us ne sono un buon esempio. Si tratta in fondo di un immaginario fortemente conservatore, dove personaggi omosessuali sono ammessi perché partecipano al sogno americano di proteggere la propria casa con armi da fuoco. Il fungo rappresenta invece tutto ciò che il capitalismo individualista e neoliberista detesta: un’enorme rete sotterranea che connette creature diverse (quella che mangiamo è solo la parte che il fungo sviluppa per produrre le sue spore, cioè per riprodursi).

I funghi sono l’internet delle foreste, il Wood Wide Web che è stato descritto dall’ecologa Suzanne Simard e che porta da albero ad albero, attraverso le radici, nutrimenti, batteri e informazioni, in quella associazione simbiotica chiamata «micorriza» da cui dipende il 90% delle piante. I funghi connettono interi ecosistemi, sfumano i confini tra vite che ci sembrerebbero separate e ne svelano gli intrecci. È un’idea di mutualismo e cooperazione necessaria nell’epoca del cambiamento climatico, e per questo ora siamo di fronte a una «svolta micologica», a un momento di nuovo interesse culturale, artistico, scientifico ed economico per i funghi, celebrati da libri come L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi di Sheldrake (Marsilio, 2020). Speriamo allora che The Last of Us sia solo il colpo di coda di una visione che stiamo superando mentre impariamo a convivere coi funghi, e con tutto il non umano.