«The Handmaid’s Tale», il monito cantato delle ancelle
A teatro A San Francisco la produzione del danese Poul Ruders ispirato ai libri di Margaret Atwood
A teatro A San Francisco la produzione del danese Poul Ruders ispirato ai libri di Margaret Atwood
Non sono molti i romanzi che negli ultimi decenni sono stati capaci di interpretare il proprio tempo e quello venturo , al punto da dare vita a molteplici riletture al cinema, nella serialità televisiva, in teatro, nella danza, nell’arte contemporanea e persino nei codici nelle manifestazioni di protesta. Uno di questi è senza dubbio Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood e la riprova di questa potente penetrazione nell’immaginario collettivo si è avuta il 14 settembre con il successo alla San Francisco Opera di una nuova produzione dell’opera del danese Poul Ruders The Handmaid’s Tale. Nata nel 2000 all’Opera di Copenhagen l’opera, che si avvale del libretto solido e tagliente di Paul Bentley, ha avuto varie riprese in Europa e in Usa ma quella San Francisco è la più importante delle produzioni proposte proprio nel paese in cui Attwood ambienta il futuro distopico del suo racconto. Il successo è merito congiunto della qualità della distribuzione artistica, della direzione energica di Karen Kamensek e dello spettacolo di John Fulljames e ha conferito al messaggio dell’opera un’urgenza particolarmente angosciosa, come fosse un monito sul futuro degli Stati uniti in piena campagna elettorale.
Opera ispirata al romanzo di Margaret Atwood, il futuro distopico su piani sonori
Ruders è abituato a declinare la scrittura vocale in un’idioma in costante trasformazione e libero da etichette, che ibrida memorie del secondo novecento – Britten, Barber, Sostakovic – con i modi del gregoriano, della polifonia vocale, del canto tradizionale e del musical statunitense. La struttura di un prologo e due atti è sorretta da un’orchestrazione vivida e contrastata, con strumentazione ricca e varia, che permette di restituire il clima plumbeo dell’universo concentrazionario di Gilead ma anche le sottili pulsioni emozionali che corrono sotto la coltre oppressiva.
I PIANI musicali intersecano spesso passaggi temporali sovrapposti, che rimandano al «tempo di prima», alla quotidianità e poi alle manifestazioni, alle leggi liberticide, alle repressioni e al tentativo di fuga in Canada della protagonista con il compagno e la figlia. Se alla protagonista Offred il mezzosoprano Irene Roberts presta una voce calda e intensa, il cui disegno tutto soprassalti e mortificazione è aperto anche a squarci struggenti di nostalgia, le altre voci femminili sono spesso tese verso l’acuto e quasi al grido come nel caso della implacabile Aunt Lydia di Sarah Cambridge. Il timbro di contralto tinge di colori opposti le ansie della Offred «del tempo di prima»- Simone Mcintosh – ma anche la violenza e le bizze di Serena Joy, potente moglie del comandante – il mezzosoprano Lindsay Ammann. In alcune scene di impatto e violenza esplosivi, la voce di Serena Joy sovrappone con effetto straniante le note di Amazing Grace al rito collettivo del parto o alle punizioni e alle impiccagioni inflitte alle ancelle e agli altri trasgressori all’ordine mortifero di Gilead. Perfetto il basso John Relyea nel suo ambiguo ruolo del comandante, aguzzino e potenziale salvatore di Offred.
ALTRETTANTO centrate le altre voci maschili come le parti femminili raccolte spesso in cori in cui si rapprende il messaggio della dittatura teocratica. La regia di Fulljames sintetizza con misura il vortice di immagini cinematografiche e televisive ormai di notorietà globale: nella visione dello streaming diffuso dal 21 settembre per più giorni dal sito del teatro lo spettacolo risultava convincente sia nei momenti intimi, sia nella lineare sottrazione impressa alle scene di massa, compreso il finale in cui i nuovi schiavi si ritrovano a intonare un inno forse traversato da un barlume di speranza.
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