The Cure, memento mori «old wave» per un mondo solitario e perduto
C’è tanta di quella grazia da sperare che sia l’ultimo. Se non fosse che Robert Smith ha già annunciato altri due album, Songs Of A Lost World sarebbe per i Cure l’epilogo perfetto, una chiusura del cerchio michelangiolesca. Non tanto per la suggestione scultorea del «non finito» in copertina — il tuttotondo di Janez Pirnat in antitesi rispetto alla loro quarantennale tradizione grafica — quanto per la sintesi poetica di quella che si annuncia volente o nolente come stagione finale della band.
La voce ancora vivissima di Smith agisce con parsimonia, proprio come lo scalpello dell’ultimo Buonarroti, lasciando ampie superfici di materia musicale tra grezzo e finito al termine di una lavorazione avviata sul palco prima che in studio.
Non a caso, ad accomunare gran parte dei brani è una struttura fortemente dominata dalle parti strumentali, anch’esse granitiche come tante basi ritmiche in attesa di sovraincisioni. Tre minuti e venti secondi di sola musica aprono il disco con Alone, prima del proemio vocale di Smith che dà il tono all’intera opera parafrasando il poeta Ernest Dowson con il verso «This is the end of every song we sing» e invocando il mondo perduto in una sola domanda: «Where did it go?».
All’apparenza monolitico, ma è la stessa materia a fare la differenza
LA CUI RISPOSTA — «It’s all gone» — non può che giungere nella conclusiva Endgame, traccia altrettanto sinfonica che espone il canto soltanto dopo sei minuti di scheletri ritmico-armonici mossi quel tanto che basta da Jason Cooper (batteria), Simon Gallup (basso), Roger O’Donnell (tastiere), Reeves Gabrels (chitarra) e dalla co-produzione altrettanto compassata di Paul Corkett.
Michelangiolesco è soprattutto il modo in cui Songs Of A Lost World tira le fila di motivi atavici della band britannica quali l’alienazione e l’ansia per il futuro, a lungo profetizzato e ora raggiunto da Smith come ultima fase dell’elaborazione di gravi perdite personali (in pochi anni entrambi i genitori e il fratello Richard, cui dedica I Can Never Say Goodbye, anch’essa aperta da una lunga intro strumentale): negazione, rabbia, contrattazione e depressione risuonano già come l’eco dell’attuale accettazione.
Anche per questo l’album è un epilogo perfetto. Se non dell’opera omnia dei Cure, quanto meno di un’ideale trilogia avviata da Pornography (1982) e proseguita con Disintegration (1989): di quest’ultimo ritornano solennità e densità sonora; dal primo si eredita il pessimismo ma non la provocazione.
Se infatti l’album del 1982 si apriva affermando «non importa se moriamo tutti» (One Hundred Years), a quella stessa voce, ora che tutto si rivela perituro, importa eccome: «Le mie canzoni hanno sempre avuto questo elemento, la paura della mortalità» — ha dichiarato Smith alla vigilia dell’uscita — «È sempre stato così, fin da quando ero giovane. Ma quando si invecchia, diventa più reale. Prima scrivevo di cose che pensavo di capire: ora so di capirle».
SE POI INSERIAMO Songs Of A Lost World all’interno di un più ampio dialogo tra rock e mortalità, la tentazione è quella di comporre un’altra trilogia accomunando la poetica degli ultimi Cure a quella del Bowie di Blackstar e dei Depeche Mode di Memento Mori.
Detta così, è quanto meno lecito per Mr. Smith toccare legno e affrettarsi ad ampliare con i prossimi capitoli già in serbo una discografia che è di per sé un «non finito«.
Nel frattempo, l’opera neogotica e old wave della sua maturità ci mette di fronte a uno scenario apparentemente monolitico, monocromatico, monocorde, senza nemmeno il rifugio precario di una ninna nanna né l’oasi di un venerdì d’amore. Ma oltre la superficie, è la materia stessa a fare la differenza.
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