The Cure, disperazione e latenza in salsa pop
Note sparse Per il trentennale di «Wish», Robert Smith e soci remixano l’album con l’aggiunta di rarità e tracce live
Note sparse Per il trentennale di «Wish», Robert Smith e soci remixano l’album con l’aggiunta di rarità e tracce live
Dopo l’immersione nel baratro della droga e della violenza interiore con i 3 lavori «dark» degli anni ’80, il minimale Seventeen Seconds (1980), l’amniotico Faith (’81), il crudo e morboso Pornography (’83), il leader, cantante e chitarrista dei Cure, Robert Smith, è rimasto quasi solo nella formazione. In più fa ancora parte della line-up di Siouxsie And The Banshees, che sta completando l’album Hyaena. Le nette avvisaglie di una svolta pop, Smith le aveva date con l’album psichedelico Blue Sunshine a nome The Glove, insieme a Steven Severin, bassista dei Banshees, e con singoli leggeri e disimpegnati a nome Cure, come Let’s Go To Bed o The Walk.
È The Top (’84) a inaugurare su album la nuova fase dell’ensemble. Realizzato quasi in solitaria da Smith, consiste in un pop lunatico, venato di candore psichedelico, capriccioso, quasi malamente in equilibrio su se stesso. Ma le liriche sono ancora tetre, depresse. È come se la musica dei Cure non fosse realmente cambiata da quella dei primi tempi, ma avesse semplicemente mutato segno. Le canzoni sembrano annegare in se stesse, ma sono solo in apnea, si muovono in uno specchio d’acqua che sfiora, bagna, inonda, ma inevitabilmente si ritrae.
LA RICERCA prosegue nel seguente The Head On The Door, un disco che è l’opposto del precedente; tanto esagerato e solipsistico il primo, quanto solare e superficiale, nella migliore delle accezioni, questo, grazie al suo nitore e alla sua perfezione.
Senza abbandonare l’esistenzialismo disperato, la band si cimenta in un doppio album di pop sfrenato e brani più tormentati, Kiss Me Kiss Me Kiss Me (’87), in cui rivisita felicemente tutta la sua tipologia di canzoni, aggiungendo idee funky. Poi, l’inaspettato: Disintegration riprende le atmosfere oscure della trilogia «dark», ma in modo esagerato, spectoriano, orchestrale. Le canzoni pop sono più convenzionali delle precedenti, come a lasciar spazio a una continua attutita angoscia atmosferica, mentre i brani più bui sono lunghi e tormentosi. C’è qualcosa che non convince, qualcosa che manca, ma non si può non ammettere che il lavoro, ora geniale ora autoindulgente, sia una delle pietre miliari dei Cure.
Un disco che parla soprattutto di amore e separazione; vanta un intreccio di chitarre forse mai così intenso e policromo e una vocazione chiaroscurale
IL DOPPIO Wish (’92) si reimmerge nella psichedelia, ma in quella dell’allora imperante indie e dello shoegaze. Parla soprattutto di amore e separazione; vanta un intreccio di chitarre forse mai così intenso e policromo e una vocazione chiaroscurale, con singoli pop epocali come A Letter To Elise e Friday I’m In Love, e chiude il periodo classico dell’ensemble. Come dei precedenti lavori, anche di Wish, per il trentesimo anniversario, è uscita una deluxe edition. Essa contiene l’album originale rimasterizzato da Robert Smith, un secondo cd di demo, perlopiù francamente superflue, e un terzo, più interessante, di remix, rarità, live track.
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