Cosa succede quando «noi» diventiamo «loro»? È questo uno degli interrogativi di The Animal Kingdom (titolo originale Le règne animal), il film di Thomas Cailley che dopo aver aperto Un certain regard a Cannes lo scorso anno è arrivato nelle nostre sale.

VINCITORE di ben cinque César – migliore fotografia, suono, costumi, effetti speciali e colonna sonora originale del bravissimo Andrea Laszlo De Simone – il film ci catapulta subito in una realtà in cui una malattia si sta diffondendo sempre di più: le persone si trasformano gradualmente in animali. C’è chi diviene uccello, chi polpo, chi bestia feroce. Le cause sono sconosciute, così come il perché vengano colpiti alcuni piuttosto che altri. Ciò che la medicina tenta di fare è innanzitutto sedare l’aggressività delle «creature», che vengono trattate a tutti gli effetti come un problema di ordine pubblico.
In questo contesto il giovane Émile (Paul Kircher) è colpito duramente dalla mutazione della madre, verso la quale prova un forte rifiuto, mentre il padre François (Romain Duris) cerca di fare l’impossibile per aiutarla, al punto di trasferirsi in un paesino del Sud della Francia dove la ricerca sulla malattia sembra fare progressi.

The Animal Kingdom si divide tra film fantasy – con i «mutanti» che irrompono violentemente nella vita umana e civile – accenni di body horror e racconto di formazione (e il rimando del nome del ragazzo all’opera di Rousseau non è casuale). Émile si deve infatti ambientare nella nuova scuola, dove vuole tenere segreto ciò che sta accadendo alla madre, dichiarata pubblicamente morta. Ma la capacità di Cailley è di tenere insieme una visione accattivante, dai ritmi serrati, con interrogativi profondi.

Di fronte alle «creature» infatti gli atteggiamenti sono molto diversi: c’è chi li condanna, chi li prende in giro, chi mostra più compassione. E questa è la riflessione sul «diverso» e su come tendiamo a rifiutare ciò che fuoriesce dalle categorie consolidate – Émile è turbato dalla «bestialità» della madre ma certo non da quella del suo cagnolino. C’è poi tutta una epistemologia della medicina, del sano e del malato, di come possiamo pensare di «salvarci» – lo scetticismo di François verso i medici, ma l’aggrapparsi comunque a quella speranza, ci dice molto anche dei nostri tempi, dell’atteggiamento nei confronti della pandemia, di come le credenze ci orientano nel mondo. E infine, l’accettazione del cambiamento, anche quando ci spinge dove proprio non vorremmo, quando l’altro che aborriamo siamo noi stessi. Potrebbe valere la stessa riflessione per la vecchiaia, esempio di divenire-altro che mescola nuovamente le carte (ed è questo, forse, a farci più paura). «È l’animale che mi porto dentro…» cantava Battiato. Ma forse un giorno potrebbe uscire allo scoperto.