Alias Domenica

Texas, il seme della violenza

Ascesa e caduta di una dinastia di proprietari terrieri, dall'epoca dei vaqueros alle trivellazioni petrolifere: «Il figlio», un romandi Philipp Meyer per Einaudi

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 16 marzo 2014

«Diventeremo padroni di tutto. All’infuori, ovviamente, di noi stessi». L’ossessione del dominio, sotto la minaccia perenne del crollo, è il nodo centrale del secondo romanzo di Philipp Meyer, Il figlio (traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi «Supercoralli», pp. 553, euro 20,00). Cresciuto a Baltimora ma trasferitosi a vivere in Texas, lo scrittore che con l’acclamato esordio di Ruggine americana si è visto selezionato dal «New Yorker» fra i venti migliori autori sotto i quarant’anni tenta con questo libro la strada del romanzo storico intorno alla Frontiera, cioè al mito di fondazione della nazione americana.

Ecco dunque le vicende della dinastia texana dei McCullough nel corso di quasi due secoli, dal 1836, anno di nascita del patriarca Eli detto «il Colonnello» (destinato a morire centenario) fino al 2012, quando la pronipote Jeannie ripercorre il proprio passato in punto di morte. Fra gli estremi di queste due date si squaderna tutta la storia americana: la fine dei nativi, la guerra di Secessione, le rivolte dei messicani, i conflitti mondiali, l’assassinio di Kennedy, la guerra del Golfo. Ad affiancarsi alle voci di Eli e Jeannie c’è anche quella di Peter, figlio di Eli, che tiene un diario dal 1915 al 1917. La prospettiva multifocale serve a Meyer, oltre che per rendere con dinamismo la profondità storica del suo discorso sulla nascita degli Stati Uniti, per sfuggire a una serie di rischi annidati negli scopi che si è prefisso, primo fra tutti quello di appiattire la pluralità di voci e di visioni della storia su una sola versione, autorizzata o meno. Nulla di più lontano dalle sue intenzioni: a Meyer interessa guardare lo stesso oggetto (l’ascesa e caduta di una dinastia di grandi proprietari terrieri dall’epoca dei vaqueros e delle sterminate mandrie di bestiame fino alle trivellazioni petrolifere) da prospettive diverse: quelle degli Anglos, dei messicani e degli indiani. L’America è nata da una serie di espropriazioni forzate, furti e sopraffazioni: «rubavano una cosa e poi pensavano che nessuno avesse il diritto di rubarla a loro. Ma in fondo era quello che pensavano tutti: se prendevi una cosa, avevi il diritto di tenerla per sempre». Violenza ed efferatezza sono una grammatica primigenia: lo sente e lo accetta per vocazione biologica il capostipite Eli, che a quattordici anni vede l’intera famiglia massacrata dai Comanche che lo portano via e lo fanno diventare per tre anni uno di loro; lo avverte con angoscioso disgusto suo figlio Peter, nel cui carattere si manifesta una tendenza introversa che lo rende ostile alla durezza e ai metodi spicci del Colonnello. Il quale da parte sua lo ritiene senza mezzi termini un fallito.

C’è un delitto fondativo per l’impero dei McCullough, che sarà anche il seme della sua rovina. È il culmine di una faida annosa con i vicini, i messicani Garcìa: con un pretesto gelidamente manovrato dallo spietato Colonnello, la faida finisce in una strage che lascia sul terreno diciannove persone, fra cui alcuni bambini. L’atto violento crea il proprio diritto dal nulla, e mediante il timore che incutono in tutto lo Stato,dopo aver sterminato i Garcìa, i McCullough riusciranno anche a prendersi la loro terra. Lo spettro della casa major dei messicani, ridotta a uno scheletro carbonizzato, ossessiona Peter, che non era d’accordo con la decisione di uccidere i vicini perché credeva nella loro innocenza, e diventa il contraltare di un altro fantasma, ma vivo: la presenza spettrale del Colonnello.

Eli si è fatto da solo, ha creato il proprio mito, tiene la realtà in pugno per stritolarla, è «una pistola spianata sul mondo», e grazie al lungo racconto delle sue esperienze tra i Comanche acquista un’aura tra animalesca e semidivina. È la sua figura la pietra di paragone dell’esistenza dei McCullough, è sempre a lui che si guarda, per abbassare la testa o per fuggire, per tacere o per opporsi; è lui a tenere insieme le strade intrecciate di questo romanzo. Ma non solo per questo Il figlio è fatto di fantasmi che ritornano: a sconvolgere la vita di Peter arriverà infatti Marìa, l’ultima sopravvissuta dei Garcìa, con cui si crea un legame inaudito, fra impossibilità del perdono e istinto invincibile all’amore, fomentato in Peter da quel rimorso che lo allontana definitivamente dal mondo dei suoi padri. Perché l’unico modo di seguire il movimento della storia, credendo in apparenza di sottrarvisi, è tradire i padri. Ogni pretesa nobiltà, ogni eroismo vengono fagocitati da quella ferocia che è il motore del mondo: nella sua vanità (da intendersi in tutti i sensi) persino il Colonnello alla fine apparirà come un debole, uno che non ha avuto immaginazione, che ha visto solo quel che c’era ed è andato a prenderselo, probabilmente portandosi nella tomba un segreto inconfessabile. Così il mito crolla.

Si direbbe che in questo romanzo i veri eroi siano gli inadeguati, e forse è vero nel caso di Peter, ma la sconfitta non ha niente di poetico e non c’è autentico riscatto neanche per lui; quanto a Jeannie, condannata a frenare l’incombere della fine in un mondo di uomini spregevoli, tutti i suoi sforzi per trasportare in una nuova epoca la visione del Colonnello naufragano contro la frivolezza e la confusione del tardo Novecento, ma anche contro l’oscuro istinto di dissoluzione che questa donna tutta volontà ha sempre covato. E intanto la terra del Texas risputa fuori ossa, fossili, reperti di altre lontane epoche, dalla terra promana un potere immemoriale: esso ricorda continuamente ai personaggi che si agitano nel Figlio il loro destino, come quello di chiunque altro: scomparire. Certo, il Colonnello giganteggia come un’entità preumana, apparentemente amorale, ma il suo contatto arcaico con la terra (sola unità di misura del reale) lo rende capace di supremi gesti di pietà: come quando da ragazzo, mentre i Comanche stavano infliggendo inenarrabili torture a un cacciatore di bisonti, lui è sgattaiolato dal tepee in piena notte per liberare l’agonizzante dalle sue sofferenze grazie al veleno di serpente.

Inutile fingere di ignorare che un’opera del genere ha di fronte a sé il modello inesorabile di quel romanzo – benché molto diverso – che è considerato il capolavoro di Cormac McCarthy. Il confronto è stato messo sul tavolo con piglio forse inutilmente polemico dallo stesso Meyer in alcune interviste. Rispetto a Meridiano di sangue si sente che il bisogno dell’autore è quello di estendere il contatto realistico con i dettagli del quotidiano (il libro pullula di oggetti, piante, nomi) allo stesso tempo limitando la tentazione metafisica che favorirebbe l’accendersi di un registro barocco della scrittura, un’enfasi dai toni biblici. Nondimeno, nel Figlio le descrizioni cruente, di lancinante crudezza, sono bilanciate da episodi di pietà o terrore dotati di forte intensità tragica, tanto da ricordare gli storici antichi: nell’epidemia che si scatena dopo la morte del cacciatore di bisonti, le madri indiane portano nel bosco i bambini rimasti ciechi per ucciderli, in modo che nell’accampamento resti più cibo per i sani.

Se l’epica della grande dinastia terriera e petrolifera a confronto con i tempi che cambiano potrebbe far pensare alle prove narrative di uno scrittore come Ward Just, è anche vero che per alcune parti del Figlio sarebbe lecito parlare di romanzo di formazione: ma in realtà qui nulla pare prendere davvero forma, a parte il ripetersi di una stessa ossessione di dominio; Eli come Peter e Jeannie non evolvono davvero, e a signoreggiare la storia è un senso di vuoto e di disfacimento incombente, come in quell’altro potente incunabolo western che è Butcher’s Crossing di John Williams.

Il mito americano è costruito sul vuoto, la fortuna precipita nella stessa tomba gli imperi in lotta, tutto potrebbe sparire senza lasciare traccia: infatti l’apice dell’odio non è solo uccidere l’altro ma eliminare ogni traccia del suo passaggio sulla terra, come non fosse mai vissuto. Eppure, reincarnato e travisato in un altro mito, quel che scompare ritorna: basti pensare a un altro riferimento ineludibile per Meyer, lo studio fondamentale di Leslie Fiedler il cui titolo originale è The Return of the Vanishing American. La nemesi si incarnerà allora nell’ultimo discendente dei Garcìa, Ulises, che rivendicherà la propria parte e per paradosso supremo è anche l’ultimo dei McCullough, essendo nipote di Peter: nel suo sangue c’è dunque quello di due famiglie che si sono massacrate a vicenda. Anche lui «diventerà qualcuno». Dopo tanto combatterlo, quindi, incarnare l’altro: e infine non sarà un caso (con perdonabile strizzata d’occhio di Meyer al lettore) che gli indiani imbottiscano i loro scudi con le pagine della Decadenza e caduta dell’impero romano di Gibbon.

 

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