Testori espressionismo e redenzione
Mi è capitato talvolta di osservare come un Meridiano possa essere considerato un saggio del quale le opere degli autori siano quasi lunghe, abnormi citazioni. È ciò che induce ora a pensare Giovanni Testori, Opere scelte, a cura e con un saggio introduttivo di Giovanni Agosti; eccellenti gli apparati: la Cronologia di Giuseppe Frangi e le Notizie sui testi di Giovanni Battista Boccardo (Mondadori «i Meridiani», pp. CXIV-1583 con 106 tavole f.t., € 90,00).
L’ideale sarebbe che, qualunque sia la scelta delle «citazioni», tutto l’autore ne risultasse rappresentato. Qui il punto di vista del curatore è così accentuato che, trascegliendo nell’opera, ne dà una direzione che altrimenti si sarebbe solo malagevolmente osservata; e consapevole al punto da delineare anche un’altra possibile selezione dei testi, tutta diversa da quella presentata come di «opere sceltissime». L’introduzione così non è un ritratto né di fronte né di scorcio di Testori, ma la vicenda di una sua particolare ricezione: la prima parte è una memoria autobiografica tra l’individuale e il generazionale; la seconda una articolata nota giustificativa per un Testori sacrificalmente decollato.
Che cosa sia Testori lo devono dunque dire i suoi testi come collocati nel volume, vero e proprio allestimento di una mostra che lo sottrae al tratto più spiccatamente lombardo, sbilanciandolo invece verso gli ultimi anni (da Ossa mea a Tre lai). Dove sono finiti Il ponte della Ghisolfa e la Gilda del Mac Mahon? Di I segreti di Milano restano Il dio di Roserio (poi nel Ponte) e L’Arialda: significa qualcosa, come le voci di un paradigma verbale.
Tanto che il titolo dell’introduzione, «Perché così», può essere considerato come la traduzione del classico (proprio nel campo del curatore) «Ragioni di una mostra». Né tali ragioni si sottraggono alla soggettività, fino a stravolgere la prospettiva storica e il lavoro altrui (ne è riprova anche l’ultra selettiva bibliografia).
La benemerita edizione di Fulvio Panzeri è rapidamente liquidata anche perché senza gli scritti d’arte, ma – pur volendo accantonare i servigi che rende e renderà nella ricognizione di territori sterminati – il titolo di Opere per i tre volumi dei Classici Bompiani non pretendeva esaustività; e, assai utili, vi si erano aggiunti, di altre mani, La realtà della pittura (da Longanesi), dove si può leggere il Grünewald cassato dal Meridiano, apprendiamo, quando già in bozze (il saggio è del 1972, ma il pittore era apparso nella bibliografia di Testori già dal 1941), e tre volumi novecenteschi (presso Le Lettere).
In quello sulla pittura stava l’Ecce Bacon, ora anche incluso: pittore consanguineo, per Testori: un alter ego la cui bestemmia lo rende sostituto in era moderna di Grünewald. Come suggeriva anche un vecchio titolo di Carlo Bo, «bestemmia» è un diapason della dissonanza; e attira, sappiamo, il nome di Pasolini, la cui fine induce Testori a una straziata immedesimazione in A rischio della vita.
Del resto, nel Meridiano non si può dire che le pagine dedicate all’arte siano preponderanti: su una trentina di titoli in indice, non più di un quinto sono di critica d’arte. Ma, alternati al resto, l’effetto è nuovo. E l’insieme pare un rosario di scandali, in ordine cronologico: dall’esordio su «Paragone» col saggio su Francesco del Cairo mal digerito da qualche longhiano, all’Arialda, che è storia nota, e fino alle invettive contro i salotti culturali milanesi. Gli scritti d’arte si vuole non siano in Testori pretesti per altra scrittura. E infatti, aggiungiamo, tante volte Testori scrive «documento», quasi a ciò sottolineare.
Ma se è vero, come è vero, neanche si possono dimenticare l’«Addio lume dell’Alpi» che ricalca il prediletto Manzoni in Polemica e pace sulla Cappella della Pietà; o, per allegare un paio di esempi, l’incipit atmosferico di Luini sul lago; e il meraviglioso brano del Tanzio da Varallo che, una volta incontrato, non si dimentica mai: «Il Vescovo, niente più che una crisalide ravvolta nello splendore delle porpore, lascia per l’ultima volta il Monte…» (recuperato nella Notizia su L’ultima processione di S. Carlo, dai Trionfi). Per dire: con tutti i documenti, l’argomentazione in Testori è di buon grado accompagnata dalla poesia, che dal documento si stacca per percorrere propri passi. Se questi testi non sono ora accolti non vuol dire certo che non esistano. Allo stesso modo, sottrarre Testori ai «passe-partout critici» non vuol dire che all’origine quei passe-partout non avessero qualche fondamento, altrimenti le porte sarebbero rimaste ben serrate.
Un fascio di luce è il ripescaggio del testo letto alla presentazione di Da Cimabue a Morandi, il Meridiano di Longhi curato mirabilmente da Contini, disponente i saggi secondo l’ordine cronologico non dell’edizione (che avrebbe poi dovuto vedersela con il tempo di stesura) ma dell’argomento in oggetto. Testori aveva da subito colto che l’assenza di tavole non indirizzava Longhi verso la prosa d’arte (un luogo comune anche tra ingegni eletti), né lo faceva emulo dei Pesci rossi: ma prossimo alla Comédie humaine (e La commedia lombarda fu per Testori, oltretutto, un titolo alternativo al ciclo I miracoli di Milano).
Quando Longhi «insegue, tra le carte, un anonimo, disperato miniatore; o cava dal ventre del nulla, che so, un Maestro come il Braccesco, il Serodine o il “Pensionante dei Saraceni”», crea «un personaggio come li saprebbe creare solo un drammaturgo di razza» (aggiungeva Testori di intendersi molto, in proprio, di questo creare personaggi). Ciò significava parlare d’arte «come d’una questione di vita o di morte; e di vita o di morte del presente, anche quando si tratta dell’arte del passato». Altro che «Voce», altro che «Ronda»: questa silloge, scriveva, «gronda d’esaltazioni, di passioni, di odi luciferini, di sviscerate preferenze, di scoperte fatte con la stessa ansia con cui si scoprono, di colpo, o seguendo chissà quali piste, gli occhi di chi si ama». Da ciò l’alto lignaggio di Longhi scrittore: «Che questo “minestrone” stipatissimo, drammatico e mai finito di conoscere, risulti anche la più alta operazione critica del secolo, è un’altra prova fiammeggiante di quanto la gerarchia dei valori, applicata ai generi, sia destituita di ogni senso». Longhi è «arrivato a scrivere la sola “storia dell’arte” che è talmente “storia” da risultar leggibile anche privata dei riferimenti illustrativi».
Infine, Da Cimabue a Morandi «non è una grande raccolta di “mimesi”, ma una grande storia; anzi, un grande ciclo di storie; con tutte le trame, le agnizioni, i colpi di scena, le truci vendette, le pause, gli assalti e i grovigli che son propri alle storie; e ai romanzi» (poi, tocco da maestro:) «e, soprattutto, con il basso continuo, il “ron-ron” fluviale, ora innico, ora straziato, che risuona, non già e non mai al fondo delle mimesi d’una storia già fatta, ma solo e sempre al fondo della storia e della vita fatta e creata per la prima volta».
Anche i testi di polemica sono funzionali all’allestimento della mostra. Più che la delusione brusca manifestata – però con ilare, canzonatorio compiacimento – verso Gae Aulenti, interessano i due interventi sul marxismo (o, meglio, sull’occupazione del potere da parte del Pci), testimonianze esistenziali molto più che disposizione al dibattere (nulla poteva mai accomunare Testori alla prosa standard delle «questioni concrete e gravi» sempre sulla penna di dirigenti e funzionari di partito).
Sulla scia delle invettive alle quali, qualche anno prima, sempre sul Corriere, aveva dato la stura il Pasolini degli Scritti corsari, Testori diventa un polemista che lui stesso avrebbe esitato a dire politico. La rabbia esplode sui nomi dei Picasso di Guernica e sul teatro di Brecht, ed è solo l’avvio; egli sfida i marxisti del Pci a prendere in considerazione la meditazione sulla morte: ostinato a ignorare quanto sprezzanti fossero state le parole messe in scena da Pasolini nella Ricotta per il tramite del regista impersonato da Orson Welles.
Alla domanda sulla morte, Welles risponde, come fosse un ritornello da non doversi più nemmeno ripetere: «Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione». Incredibile, forse, ma l’assioma era quello, ambiguamente presentato da Pasolini e avversato con testardaggine, sulla spiaggia prima dell’aldilà, da Testori.
Giusta parte del volume è concessa alla produzione in versi e al teatro; la parte dei «romanzi» è rappresentata da esemplari assai diversi: una delle opere della stagione più antica, come si è detto; un’opera di mezzo, La cattedrale; e, del momento penultimo e ultimo, Gli angeli dello sterminio e la prosa ardua e stremata di «In exitu».
Il ventaglio delle suggestioni che si aprono al lettore è dunque dei più ampi; così, viene perfino voglia – tutto considerato, sperimentalità ed espressionismo compresi –, arrivati a «In exitu», di pronunciare il nome di Beckett: per quelle parole esitanti e inceppate, ferme sulla soglia o alla vigilia del silenzio mentre il corpo, mondo fisico, tra dolori e colpe, ansioso di redenzione, anima, diventa metafisica, cenere, ombra, nulla.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento