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Testa mano capitello, fantasmi nel Podium

Testa mano capitello, fantasmi nel Podium"Recycling Beauty", Fondazione Prada, Milano, fino al 27 febbraio 2023

A Milano, Fondazione Prada, "Recycling Beauty", a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola Una serie di 'case histories' per indicare diverse tipologie di «contemporaneità» dell’arte greco-romana. La mostra fa dittico con «Serial Classic», del 2015; allestimento «transitorio» di Rem Koolhaas

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 18 dicembre 2022
“Mano destra del Colosso di Costantino”, 312 d.C., marmo pario, Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori

Non esistono opere dell’antichità nello stato in cui vennero licenziate dai loro creatori. La loro lunghissima vita ha attraversato fasi alterne di adorazione, amore, indifferenza, disprezzo, ammirazione. A ognuno di questi momenti corrisponde uno stato, anche fisico: una scultura può essere rifinita, colorata e venerata in un tempio; dimenticata in un rudere; sepolta; dissepolta bianca e frammentaria, accantonata come un reperto, poi riportata a nuova vita o tornata allo stato informe, quasi minerale, da cui il suo autore l’aveva riscattata. Facile metafora della vita, ritmata da amori, dolori, lavori, più che dalla sequenza calendariale; assecondando, insomma, le velocità diverse dell’esperienza.
Recycling Beauty (a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola, alla Fondazione Prada fino al 27 febbraio) parla, in fondo, di questo. Con Serial Classic del 2015 è parte di un dittico: la scultura classica interpretata, copiata, diffusa grazie alla pervasività della Repubblica poi dell’Impero Romano e alla serialità come sistema; infine quelle stesse statue che resistono all’immane rovina dell’Impero e lo rievocano anche se ridotte a frammenti, a residui, come un virus che riacquisisce vigore a ogni reinfezione, o «un fantasma in una casa infestata» che abita la nostra immaginazione, per citare Settis. Il classico è tale proprio perché si ripete. Riappare di continuo, riemerge nella storia apparentemente immutato, ma necessariamente mutevole; riplasmato, di volta in volta, tra rinascenze e rifunzionalizzazioni.
Una testa, una mano, un capitello consunto, un frammento mutilo che si differenzia appena da un ciottolo, sono le parti sopravvissute di un insieme che si può materializzare solo virtualmente. Anche pezzi ridotti a spoglie attivano suggestioni, rimandando a una memoria collettiva. Così, per esempio, le tessere che compongono le decorazioni cosmatesche diffuse tra dodicesimo e tredicesimo secolo, ricavate dai marmi pregiati della Roma imperiale, come quelle della Cattedrale di Anagni presenti in mostra. Da marmi di spoglio identici, una volta cotti, si poteva ricavare anche la calce per tirar su una Roma nuova, medioevale poi moderna e barocca. Il reimpiego funzionale, soprattutto nell’Urbe, ha avuto una propria organizzazione produttiva e una storia lunga, oltre a ragioni molto pragmatiche.
Diverso l’uso ostentativo di vestigia del passato, che passa da diversi stadi di relazioni con l’antichità che vanno oltre la pratica edilizia: si riutilizzano sculture ed elementi architettonici per sottolineare una continuità con la tradizione classica, oppure si aggiornano e risemantizzano iconografie o, infine, i manufatti si isolano come documenti storici. Nessuno di questi stadi esiste indipendentemente dall’altro. In mostra i casi sono moltissimi: il disco marmoreo oggi al museo di Velletri, conservatosi perché il primo soggetto, un trasporto di un guerriero, è trasformato in una Deposizione di Cristo in epoca rinascimentale; l’Antonino Pio diventato San Giuseppe ora alla Glyptotek di Copenhagen; il ritratto di famiglia che entra in casa Santacroce a Roma ed è convertito in un modello morale con l’aggiunta di alcune scritte, Honor, Amor, Veritas; la latrina in porfido riusata tra XI e XVI secolo nelle incoronazioni papali; la Zingarella e il Moro Borghese in cui il francese Nicolas Cordier a inizio Seicento monta pezzi antichi in creazioni nuove e preziosissime, e via di seguito. Gli esempi esposti raccontano intrecci tra pratiche di riuso e riappropriazione semantica, ma è impossibile trovare una linea comune, una sintesi. Ogni caso va analizzato singolarmente, è una storia a sé che si legge soprattutto nelle modifiche materiali subite e negli spostamenti che si riescono a tracciare.
Lunghi o meno lunghi, i viaggi sono sempre significativi. Sulla mappa si possono verificare i moltissimi chilometri affrontati dalla bellissima Tazza Farnese, che vagò tra corti e collezionisti in Europa e Medio Oriente, con strascichi persino nell’arte persiana. Ma anche spostamenti meno impegnativi, come quello al Campidoglio dello spettacolare Leone che sbrana un cavallo, sono altrettanto rilevanti. Nel cuore della città, la scultura antica diventa un simbolo potente del governo comunale; ora, quasi al centro del Podium della Fondazione Prada, è l’immagine-guida della mostra.
Nell’allestimento di Rem Koolhaas/OMA alcune basi richiamano, non a caso, gli imballaggi per il trasporto delle opere, altre sono formate da lastre di plexiglass e moquette; alcune delle sculture sono invece appoggiate a piani orizzontali modellati come scrivanie da ufficio (sedie comprese). Lo spazio finisce per sembrare transitorio, un luogo temporaneo di studio dove si suggeriscono tempi e modi di osservazione e coerentemente si può leggere, in estrema sintesi accanto alle didascalie, la storia dell’oggetto esposto. Vero, verosimile, antico o moderno, il riciclo finisce inevitabilmente per mescolare le lingue e i piani temporali, creando nuove vite ma anche trappole: Pietro Bembo era convinto che la sua Mensa isiaca fosse composta da geroglifici dell’antico Egitto, oggi sappiamo invece che è una composizione pseudo-geroglifica romana del I secolo. Cioè, in sostanza, un falso. Artisti come Donatello e Michelangelo giocavano consapevolmente a simulare l’Antico, mettendo alla prova osservatori, esperti, amici. Che il progetto falsificatorio sia o meno in malafede, l’opera in ogni caso si appropria di un’esistenza che non ha vissuto, riplasmando le cronologie e rendendo complicato il lavoro degli umanisti come Bembo prima o degli archeologi e degli storici dell’arte oggi. Tutto questo inspessisce il dossier di un’opera, aumenta il volume del romanzo che le si può cucire intorno con intrecci che in qualche caso posso essere dipanati, in altri no. Come in un racconto di Henry James, la parte più misteriosa e inafferrabile dell’opera antica affascina fino all’ossessione, e le ossessioni si accumulano sul suo corpo materiale rendendola oggetto di desiderio. Una brama di possesso che non è tanto per il manufatto in sé, ma per la storia che si porta appresso, tanto più se le sue radici affondano in un’età mitica come l’antichità greco-romana.
I tredici frammenti con i «bambini di pietra» provenienti verosimilmente da un monumento ravennate, amati e studiati da artisti come Mantegna e Tiziano, sparsi per il continente e raccolti in mostra per la prima volta dopo la loro dispersione, raccontano storie di ambizioni, potere, desideri, tra nostalgie per un passato glorioso, complessi di inferiorità e manie di grandezza. Le mappe, le fotografie e i documenti squadernati sulle pareti della Cisterna stanno lì a testimoniarlo. La musealizzazione, e persino le esposizioni come quella attuale, entrano di fatto in questo processo, riallestendo i frammenti nella contemporaneità. Così anche per il Costantino dei Capitolini ricomposto. Un colosso di undici metri, spettacolare e conturbante come il dio Moloch di Cabiria, dove sono ricuciti pezzi che la storia dell’arte degli ultimi secoli ci ha insegnato a vedere separati, dalla Disperazione di Füssli al famoso scatto di Rauschenberg con Cy Twombly accanto alla mano dell’imperatore. Un gigante rimesso insieme grazie alla tecnologia digitale.
Nel catalogo si allarga lo sguardo con molti esempi, si scandiscono le vicende e spiegano le ragioni delle scelte. Il libro cede, purtroppo, sulla lingua, relegando la versione italiana dei saggi in coda, in uno spazio di servizio, mentre le schede restano solamente in inglese (è d’uso nei cataloghi della Fondazione). La maggior parte di quei testi nascono in italiano e la scrittura, anche per scritti di critica o ricerca, fruttifica dal corpo stesso dell’indagine. Con la traduzione, inevitabilmente, qualcosa si perde. Ma è forse anche questo un piccolo rispecchiamento della contemporaneità, dove la sovrapposizione di stili e linguaggi fa il paio con l’incessante stratificazione della storia umana, così evidente in alcune città del nostro paese, e nel Journey Across Italy di Alessandro Poggio che apre e chiude il catalogo.

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