A guardare i numeri si resta interdetti. Quasi il 90% degli aspiranti insegnanti non ha superato la prova scritta del concorsone. Va addirittura peggio con i magistrati: 95% di bocciati. Siamo in presenza della più inetta generazione di somari della storia, oppure il sistema delle selezioni pubbliche non funziona più? Escludendo per ovvi motivi la prima ipotesi, la seconda trova una sua fondatezza già nel dato empirico: molti dei partecipanti ai concorsi dichiarano di averci provato senza grande convinzione, senza cioè credere davvero in un buon esito finale. Inoltre, ecco, a guardare le domande degli infernali quizzoni, il dubbio che ci sia qualcosa che non va incontra ulteriori conferme.

Lo sa bene Massimo Arcangeli dell’Università di Cagliari che ha lanciato un appello «in difesa della scuola, contro un concorso pieno di errori e offensivo del merito», sottoscritto tra gli altri anche da Luca Serianni, Massimo Cacciari, Luciano Canfora e Moni Ovadia che chiedono al ministero dell’Istruzione di intervenire. La cronaca delle settimane passate ci racconta il resto: lo psicologo Howard Gardner ha scritto al ministro Bianchi che tutte le possibili risposte alla domanda sulla sua teoria delle intelligenze multiple erano sbagliate. A quanto se ne sa, il Miur non ha replicato. Poi ci sarebbe anche la storia del concorso per carabinieri dello scorso febbraio, con un quesito a tema Pokemon, ma forse quello era solo un tentativo di riportare in auge le care vecchie barzellette sull’Arma.

Ma perché il precariato nel settore pubblico ha ormai superato stabilmente quello nel privato? Non è assolutamente un fatto di merito. La legge dice che, dopo tre anni di contratti a termine, nel privato si acquisisce il diritto all’assunzione. Nel pubblico, invece, bisogna passare per un concorso. È l’articolo 97 della Costituzione a parlare. Ma un’istituzione pubblica incapace persino di porre le domande giuste, forse, dovrebbe almeno provare a interrogarsi sulle proprie funzioni civili e sociali. E di certo non dovrebbe usare la Costituzione come uno strumento per discriminare i lavoratori.