Tesori quotidiani lontano dai faraoni
L'intervista Parla l’egittologa Aude Gros de Beler, docente all’Università di Nîmes e membro della missione archeologica francese a Tanis, che domani sarà a Gorizia per il festival «èStoria». «Lontano dal lusso dei faraoni e della loro corte, si scoprono cose ugualmente sorprendenti, ad esempio il mobilio, talmente moderno da ricordare quello delle nostre nonne»
L'intervista Parla l’egittologa Aude Gros de Beler, docente all’Università di Nîmes e membro della missione archeologica francese a Tanis, che domani sarà a Gorizia per il festival «èStoria». «Lontano dal lusso dei faraoni e della loro corte, si scoprono cose ugualmente sorprendenti, ad esempio il mobilio, talmente moderno da ricordare quello delle nostre nonne»
«Quando ho intrapreso la carriera nel campo dell’egittologia era quasi obbligatorio occuparsi di Ramses II e Tutankhamon. In quel momento mi sono chiesta perché tutti guardavano ai faraoni, l’elite di una civiltà durata quattromila anni, senza prestare attenzione a come vivesse nel quotidiano il resto della popolazione egiziana», dice al Manifesto Aude Gros de Beler, docente all’Università di Nîmes, membro della missione archeologica francese a Tanis – città del delta del Nilo che va dalla XXI dinastia all’epoca greco-romana – e editrice presso Actes Sud. In occasione del suo intervento (previsto per sabato) a èStoria, festival internazionale della Storia che si svolge a Gorizia fino al 26 maggio e che quest’anno ha per tema le Famiglie, Gros de Beler ha accettato di anticiparci qualche aspetto della conversazione che intratterrà con il pubblico nella cornice dei giardini pubblici.
Fino agli anni Ottanta del XX secolo, gli scavi in Egitto si sono concentrati soprattutto nei palazzi, nei templi e nelle tombe reali. Lo studio degli abitati invece – come accadeva d’altra parte per altri periodi della Storia – non suscitava grande entusiasmo. Tuttavia, sebbene poco appariscente e prestigiosa, la scoperta di un oggetto umile riportato alla luce in contesti abitativi è suscettibile di rivelare informazioni importanti sulla qualità della vita nell’antico Egitto.
Le mie ricerche sul campo hanno permesso di far progredire le conoscenze riguardo la qualità di vita delle famiglie egiziane. E debbo dire, che lontano dal lusso dei faraoni e della loro corte, si scoprono cose ugualmente sorprendenti, ad esempio il mobilio, talmente moderno da ricordare quello delle nostre nonne e da farmi sentire questi egiziani, quasi invisibili alla loro epoca e poco considerati nella nostra letteratura scientifica, emotivamente più vicini a noi che al loro faraone.
Oltre agli abitati, sono le necropoli a riflettere gli stili di vita delle persone comuni, quelle che non potevano permettersi corredi preziosi ma che non rinunciavano a lasciare traccia del proprio passaggio su terra. Da questo punto di vista, cosa hanno apportato i suoi scavi nelle tombe civili di Tebe?
Anzitutto occorre sottolineare che la maggior parte dei defunti rinvenuti nelle necropoli «popolari» non hanno subito un processo di mummificazione. Nel migliore dei casi, si riconosce un tentativo di conservare il corpo cospargendolo sbrigativamente con uno strato di sale. Inoltre, le spoglie riposano su un «letto» di frammenti ceramici, resti di anfore o vasi di grossolana fattura. Alcuni di questi cocci venivano riposti anche sopra il morto, in modo da formare una sorta di sarcofago. Talvolta, accanto alle spoglie, veniva riposto un modesto amuleto.
Come si rappresentava invece nelle tombe la popolazione agiata, al di fuori dei dignitari e degli scribi sepolti a Saqqara, i quali avevano beneficiato delle maestranze reali per il decoro della loro ultima dimora?
A questo proposito, le tombe tebane databili tra il 1500 e il 1000 a.C. sono estremamente significative. Nella sepoltura di un caposquadra, ad esempio, si può osservare una pittura nella quale il defunto è ritratto nelle sue attività abituali ovvero mentre sorveglia il lavoro nei campi o l’allevamento che si svolgeva in determinate proprietà di una data provincia. Talvolta, in questi dipinti, si scoprono dettagli curiosi sulle pratiche del tempo, come l’alimentazione forzata delle oche o di altri animali quali mucche e struzzi. Sempre grazie alle pitture funerarie, sappiamo che – contrariamente a idee ormai consolidate – gli antichi egizi non erano affatto allergici alla carne di maiale. Uno scorcio di pittura mostra infatti un piccolo suino al quale viene versato del latte nella bocca.
Oggi, l’utilizzo della tomografia computerizzata e gli studi sul Dna, consentono di trarre informazioni molto precise sulla biografia di una mummia. Ma se sappiamo tutto sulle deformazioni ossee di Tutankhamon, che tipo di dati si traggono dall’analisi su mummie meno celebri?
Gli studi sulle mummie hanno permesso di far avanzare in maniera determinante le nostre conoscenze sull’alimentazione, sull’igiene dentale e sulle malattie. Le Tac effettuate su un campione consistente di questi «reperti», rivelano che nell’antico Egitto si moriva di setticemia perché le cure non erano appropriate. Il livello di vita del faraone era migliaia di anni luce lontano da quello dei comuni mortali. È stato ad esempio calcolato che il venti per cento delle donne moriva durante il parto e la stessa percentuale di bambini non superava il terzo anno di vita. Mentre per l’immaginario comune l’Egitto antico rifulgeva di bellezza e potenza, l’archeologia mette in evidenza che il «piccolo popolo» non godeva di buona salute e – contrariamente ai cliché sulla superiorità della civiltà egiziana sospesa in un’aura aliena – moriva precocemente come in Grecia o a Roma alla stessa epoca.
La vita quotidiana degli Egiziani che non ruotavano attorno alla corte del faraone, era raccontata nei papiri?
Non proprio. I papiri sono prevalentemente riservati a testi di carattere funerario o religioso. È invece negli ostraca – frammenti ceramici o calcarei usati come materiale scrittorio e paragonabili ai nostri «post-it» – che in epoca faraonica veniva espresso ciò che non doveva oltrepassare la sfera intima e ufficiosa di una collettività. Nel sito di Deir-el Medina (da cui proviene il cosiddetto papiro dello sciopero esposto al Museo Egizio di Torino nella sala dedicata a Giulio Regeni, ndr) sono state trovate migliaia di queste minute memorie estemporanee, iscritte con inchiostro nero o dipinte a colori.
A suo avviso, questo mondo parallelo verso il quale ha scelto di orientare le sue ricerche, è sufficientemente raccontato nei musei europei che conservano collezioni provenienti dall’antico Egitto?
Fino a una ventina di anni fa, al Louvre, erano esposti solo reperti artisticamente raffinati e «preziosi» non per forza legati ad un contesto o a un’epoca specifica della civiltà egiziana. Attualmente sono invece proposti al visitatore un percorso cronologico e uno tematico. Tuttavia, la vita quotidiana – al di là di qualche utensile o oggetto d’arredamento – resta nell’ombra in quanto l’essenziale delle informazioni su questo tema si trovano, come ho già illustrato, in situ, nelle tombe di Tebe.
Accanto al suo lavoro scientifico, lei è molto impegnata nella divulgazione. In Italia è appena uscito per Leg, tradotto da Cristina Spinoglio, «Viaggio nell’antico Egitto», un libro illustrato dai magnifici acquerelli di Jean-Claude Golvin.
Il libro che cita è uscito in Francia diversi anni fa ed è una guida ai più importanti siti archeologici dell’Egitto con alcuni «flash» sulla civiltà che ha prodotto monumenti universalmente noti quali le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino a Giza e il tempio della triade tebana a Karnak. Ci tengo però a ricordare che in Italia, nel 2017, è stato tradotto anche un libro per l’infanzia intitolato L’Egitto a piccoli passi (Giunti).
Cosa spinge una studiosa come lei, impegnata nella didattica universitaria e nella ricerca scientifica, a rivolgersi ai più piccoli?
Ci sono egittologi che parlano solo agli egittologi nella convinzione che gli altri non possano capire il nostro linguaggio o i temi che abbiamo il privilegio di studiare. Io invece appartengo alla categoria di coloro i quali, con la passione, provano ad abbattere le distanze. A me interessa trasmettere le conoscenze che ho la fortuna di acquisire col mio lavoro a tutti, sia agli specialisti che al resto della comunità. I bambini poi sono un pubblico da coltivare perché sono particolarmente ricettivi al fascino del mondo antico e possono essere educati in maniera accattivante a esplorarne e amarne ogni aspetto.
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