Terzo scudetto del Napoli, tra spettacolo e dionisiaco
A un passo dalla vittoria La città, un set a cielo aperto e invasa dal turismo di massa, si prepara alla festa. «È la recuperation - spiega lo sceneggiatore Maurizio Braucci - il recupero di un movimento reale che, nella prima vittoria del 1987, dominò le strade. Il calcio qui è anche una religione, un sentimento di rivalsa e redenzione. Non è detto che la modernità porti alternative preferibili alla commistione di paganesimo e agonismo»
A un passo dalla vittoria La città, un set a cielo aperto e invasa dal turismo di massa, si prepara alla festa. «È la recuperation - spiega lo sceneggiatore Maurizio Braucci - il recupero di un movimento reale che, nella prima vittoria del 1987, dominò le strade. Il calcio qui è anche una religione, un sentimento di rivalsa e redenzione. Non è detto che la modernità porti alternative preferibili alla commistione di paganesimo e agonismo»
La città è in fermento: da un mese ogni quartiere ha iniziato ad allestire balconi, piazze, strade con i colori del Napoli. Striscioni, bandiere, cartonati con le immagini dei calciatori a grandezza naturale. Persino lo scudetto con il numero 3: la scaramanzia è stata cancellata dal sogno che diventa realtà, dopo 33 anni dall’ultima volta. Domani, se la Lazio non vince e gli Azzurri alle 15 battono la Salernitana, arriverà l’esplosione della festa scudetto. La prima, quella dei tifosi, a cui seguirà quella istituzionale del 4 giugno. Maurizio Braucci vive e opera a Napoli, immerso in questa febbre collettiva. Direttore artistico del progetto di pedagogia teatrale Arrevuoto rivolto agli adolescenti, ha lavorato alle sceneggiature di film come Gomorra di Matteo Garrone, L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, Anime nere Francesco Munzi, La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, Martin Eden di Pietro Marcello.
Che Napoli era quella che festeggiò il primo scudetto del 1987 e che Napoli è questa del terzo?
Quello che sta accadendo per certi aspetti è molto diverso: allora ci fu un movimento spontaneo. Oggi è dettato da una pianificazione istituzionale, da quella che i vecchi compagni situazionisti avrebbero definito come la recuperation, il recupero di un movimento reale. Nel 1987 la festa non fu approvata da tutti: una parte della città e dell’Italia la vide come un eccesso, una manifestazione di delirio popolare. Allora c’era l’invenzione linguistica con frasi diventate proverbiali, gli ultras erano grandi forgiatori di sfottò, ora questo è quasi sparito. Il movimento popolare mi sembra che sia a una prova fondamentale: Napoli, con i cambiamenti dettati dal turismo di massa, dall’essere un set a cielo aperto, smentirà quello che diceva Pasolini (una tribù non arresa alla modernità) oppure lo confermerà? È una scommessa: avremo l’omologazione, un grande spettacolo dettato da criteri di marketing o una Napoli ispirata a una dimensione popolare, dionisiaca, gratuita, di comunità? Vedremo. Lo spettacolo di Arrevuoto che faremo il 2 e 3 giugno si chiama Sei mai stato a Spettropoli? è uno sguardo critico ma ironico sul turismo, finirà con un tripudio che è un sentimento di gioia. C’è differenza però tra un sentimento spontaneo e uno indotto dal marketing.
Allora nessuno discuteva di come pianificare la festa. Adesso sembra che dobbiamo rispettare le aspettative, a cominciare da quelle dei turisti.
La città sta cambiando. Non si può fermare il vento ma, sempre per citare Pasolini, è sviluppo senza progresso. Girano più soldi, c’è grande interesse. Il rischio è che finiremo per ritrovarci in una città più costosa senza emancipazione, diritti, servizi. Il turista è attirato da una reazione inconsulta e inconsapevole a dei richiami. Poi, in fondo, Napoli attira anche per i suoi tratti di oscurità con una narrazione al limite tra legalità e illegalità. Potremmo anche ritrovarci in una città omologata, carissima, con la comunità narciso. Attenzione alla «napologia»: vengono a vedere il buon selvaggio e il buon selvaggio è felice di farsi vedere. Non è detto che accada ma dovremmo discuterne.
Qui non è mai solo uno scudetto ma una sfida tra mondi, a partire dai sistemi economici del Nord. È anche un modo diverso di vivere il calcio: non basta vincere, ci vuole gioia e bellezza, un’impronta personale e inconfondibile.
Il calcio a Napoli è anche una religione, un sentimento di rivalsa e redenzione, come in tante città simili dal Brasile all’Argentina. C’è una componente escatologica: essere oppressi da povertà e fallimenti fa cercare un riscatto in qualcosa che diventa più di uno sport. A me sembra interessante anche perché non è detto che la modernità ci porti alternative così preferibili a questa commistione tra paganesimo e spirito agonistico. Nel 1987 c’era Maradona: il dio in terra, il figlio di San Gennaro (come lo raffigurava un murale a Montesanto), nostro fratello. Questa è una squadra diversa, più collettiva. Al posto di un argentino c’è un africano e questo è molto moderno: Napoli è una delle poche città in Italia dove le seconde generazioni o comunque i migranti stanno meglio dal punto di vista del contatto con la comunità. È una squadra che parla più lingue, l’università Orientale le insegna tutte. Un crocevia linguistico forte, una bella città, di grande cultura: senza fingere di essere il centro del mondo, dobbiamo convincerci che essere bravi e belli in un mondo che ci piace può essere la nostra normalità.
C’è una grande scontro, anche a Napoli, tra chi vuole rendere il calcio uno spettacolo per chi può spendere e le piazze popolari, che reclamano spazio.
Il calcio è una rivalsa, si chiede la riscossa, un fatto catartico senza guadagno. Anche se un guadagno c’è sul piano della psicologia collettiva: nell’economia, da Keynes a Hirschmann fino a Deleuze e Guattari, la psicologia sociale è sempre stata importante. Se c’è un tornaconto per il cittadino medio è nel cominciare a percepirsi non più come eterni perdenti. Una sorta di incoraggiamento a sentirsi protagonisti ma non come nel borbonico «festa, farina e forca» che presupponeva la conservazione dello status quo. Ma pensando se stessi in modo diverso, più assertivo. In fondo le squadre hanno un po’ lo spirito delle città che rappresentano. Ci sono però troppi aspetti commerciali e troppi non detti. Come la presenza massiccia del mondo delle scommesse, che poi è nei fatti una tassa sui poveri. Il calcio è lo sport che il cinema quasi mai è riuscito a raccontare al di là di una piccola epica che non ne svela le dinamiche. Un mondo ermetico che non si vuole mostrare, attraversato da grandi scandali. Del resto, «se il popolo sapesse come si fanno i maiali e come si fa la politica smetterebbe di mangiare maiale e fare politica».
Quali giocatori del Napoli sono nel tuo personale pantheon?
Ovviamente Diego Armando Maradona e poi altri due. Sono rimasto colpito dalla biografia di Faustinho Canè, calciatore nero, brasiliano delle favelas, arrivato a Napoli negli anni Sessanta. L’altro è Ruud Krol, a ridosso del terremoto del 1980: aveva un ruolo che oggi non esiste più, lo stopper, tecnica ed eleganza. Del Napoli di Spalletti direi Victor Osimhen per il suo fair play, perché è un atleta prestato al calcio, per il suo spirito: entusiasmo e libertà. Però anche Stanislav Lobotka. È uno che noti meno ma ha una funzione importante: sopportare, elaborare, ritirarsi, sostenere. Forse pensare a lui ci farebbe bene per essere più diretti e costruttivi nelle nostre ambizioni.
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