Visioni

Terence Davies, autobiografia in forma di cinema

Terence Davies, autobiografia in forma di cinemaUna scena da «Voci lontane... sempre presenti» (1988)

Cinema Addio al regista di «Distant Voices, Still Lives», nei suoi filmLiverpool, la classe operaia, l’omosessualità

Pubblicato circa un anno faEdizione del 10 ottobre 2023

«La mia passione sono i Four Quartets di Eliot, ho cercato di farne una mia modesta versione basata sulla sofferenza personale e su quella della mia famiglia». Così Terence Davies – che si dice viaggiasse sempre con una copia del libro di Eliot in tasca – raccontava Distant Voices, Still Lives (1988) in cui il regista inglese mette senza filtri davanti alla macchina da presa la propria infanzia nella famiglia degli anni Cinquanta terrorizzata come lo era stata la propria dalla figura terribile del padre patriarca. Ma l’autobiografia, così come la memoria infantile è uno dei segni che caratterizzano la poetica di Terence Davies, intrecciati a quelle esperienze a cui darà voce nella sua opera: la classe operaia, il cattolicesimo, l’identità omosessuale, tutte svolte sempre e comunque nella trama di un grande amore per il cinema. È questo aspetto che permette al regista di essere netto e insieme pieno di pudore, e di non tematizzare mai in modo banale restituendo sullo schermo l’intimo collage di una vita, di una città, la «sua» Liverpool, dei conflitti che sanno parlare anche al proprio tempo.

Terence Davies

IL REGISTA che è morto sabato scorso a 77 anni, era nato a Liverpool nel 1945, famiglia cattolica, lui il più piccolo di dieci figli, padre violento, madre devota. Dolore e epifanie: quando comincia la storia? Forse a casa, col padre che lo tormenta, la cui morte allevierà le sue pene; o nella scuola cattolica che frequenta da ragazzino, dove è costantemente bullizzato e umiliato – «Appena ci avevo messo piede avevano individuato la loro vittima» raccontava. Da qui nasce Children (1976), primo capitolo della Terence Davies Trilogy – in una filmografia che conta nove lungometraggi in quarantasette anni di carriera con una predilezione per gli adattamenti letterari – essere in altre epoche, diceva spesso lo faceva sentire più a suo agio. Non in Children però: nel bianco e nero che ha una certa implacabilità la declinazione è al presente. Davies lo aveva scritto mentre frequentava la Conventry Drama School, dove era entrato nel 1973, lasciando il lavoro di impiegato che non aveva mai accettato, lui che sognava da sempre di recitare un giorno Shakespeare. La Trilogia sono tre film brevi costruiti intorno al personaggio di Robert Tucker, un suo alter ego, dagli anni di scuola alla morte. Dopo Children arrivano Madonna and Child (1980) e Death and Transfiguration (1983) nei quali l’esistenza dell’autore viene trasfigurata tra i fotogrammi e nel flusso di una memoria che intreccia la scoperta dell’omosessualità, il senso di colpa fino alla messinscena della propria morte. In fondo anche quando passerà a Emily Dickison che ispira A Quiet Passion (2016) Davies continuerà a confrontarsi col suo vissuto o appunto con la sua trasfigurazione. La stessa intorno a cui è costruito un film come The Long Day Closes (1992), successivo a Distant Voices, Still Lives, anch’esso un flusso di coscienza dell’esperienza infantile in forma di cine-poema, tra le inquadrature composte con estrema cura ma sempre con una grana intima, in modo di non chiuderle mai nella loro forma. Lo sguardo che è quello di un ragazzino si posa su dettagli trascurabili all’adulto come l’ombra su un pavimento mentre segue lo sfumare dal giorno alla notte: l’ossessione del cinema e il suo piacere. Il protagonista che con Davies condivide anche il soprannome, «Bud», ricorda gli anni felici di quando era bambino e questa sua attrazione sconfinata per i film. È gay e infelice, a scuola è stato maltrattato dai compagni e dagli insegnanti, tiranneggiato dal padre, oppresso da un senso di colpa cattolico ma in questo groviglio l’immaginazione è più potente e offre nuovi orizzonti di fuga.

NEGLI ANNI Novanta Davies fatica a trovare i budget per i suoi film, lavora in America dove realizza The Neon Bible (1996) da John Kennedy Toole, La casa della gioia (2000), dal romanzo di Edith Wharton, il sogno di una ragazza di entrare nella alta società senza averne i mezzi, agli inizi del Novecento. Liverpool torna in Of Time and the City (2008), in cui con materiali d’archivio scrive la storia della città seguendo il filo dei propri ricordi, sentimentale e ironico insieme. Nel 2021 realizza quello che è diventato il suo ultimo film, Benediction, la figura del poeta pacifista inglese Siegrfied Sassoon, gay, tormentato, cattolico.

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