Terapie sperimentali con immagini a colori
Intervista L’artista londinese Tami Aftab parla della sua serie «The dog’s in the car» presentata nell'ambito della II Biennale internazionale della fotografia femminile, a Mantova
Intervista L’artista londinese Tami Aftab parla della sua serie «The dog’s in the car» presentata nell'ambito della II Biennale internazionale della fotografia femminile, a Mantova
Tami Aftab (Londra 1997, dove vive e lavora) ha lo stesso sorriso del padre. Tra i due c’è un rapporto di stima e complicità che va ben oltre il legame famigliare, soprattutto dal 2018 quando la giovane fotografa, al secondo anno del corso di Fotografia al London College of Communications, ha trovato nella sua malattia un momento di condivisione che si è trasformato in progetto fotografico.
The dog’s in the car (a cura di Niall Winters), alla Casa di Rigoletto, è tra gli appuntamenti della II Biennale internazionale della fotografia femminile, organizzata dall’Associazione la Papessa con la direzione artistica di Alessia Locatelli e il sostegno di Comune e Provincia di Mantova (fino al 27 marzo). Legacy è il tema della rassegna: un’esplorazione delle diverse sfumature del concetto di «lascito/eredità» attraverso i lavori di fotografe internazionali tra cui Betty Colombo, Solmaz Daryani, Delphine Diallo, Ilvy Njiokiktjien, Flavia Rossi, Daniella Zalcman.
In «The dog’s in the car» qual è il rapporto tra relazioni famigliari (in particolare padre-figlia), malattia e fotografia?
Ho iniziato questo progetto ongoing mentre ero al secondo anno di università. Volevo fare qualcosa a cui tenessi molto, perciò ho pensato alla malattia di mio padre. Lui è nato a Lahore nel 1968, ma solo quando è arrivato a Londra, a 19 anni, si è accorto di soffrire di idrocefalia. Per drenare dal cervello l’accumulo di liquido gli hanno fatto moltissimi interventi, ma l’ultima volta è stato toccato un nervo e ciò ha provocato un danno alla sua memoria a breve termine. All’inizio avevo pensato a un progetto video: io e lui conversavamo sulla malattia, cercando di affrontarla in maniera naturale. Quando, però, l’ho mostrato agli altri studenti loro ridevano. Non di mio padre, ridevano per il suo approccio umoristico rispetto alla malattia stessa. Questo mi ha portata a cambiare l’impostazione del lavoro. Non volevo concentrarmi sulla sua malattia in sé, piuttosto su mio padre come persona. Così da video si è trasformato in progetto fotografico e sono saltati fuori anche l’umorismo e l’ironia. Le prime immagini sono quelle delle scritte «the dog’s in the car» (il cane è nell’auto) o «turn the oven off» (spegnere il forno). È stata mia mamma a suggerire l’idea di queste frasi scritte sui post-it che sono in giro per la casa. Questi piccoli pezzi di carta domestici sono stati trasportati in qualcosa di grande, esterno e pubblico in modo che tutti li potessero leggere. Questo lato più leggero e ironico è piaciuto molto a mio padre. È un progetto a lungo termine, perché ci sono anche intervalli di tempo in cui non fotografiamo a causa della malattia che certe molte impedisce a mio padre di avere una vita più normale. Fotografiamo solo quando entrambi sentiamo che è il momento giusto.
Quanto è importante l’uso performativo della fotografia?
Molto! Mio padre e io lavoriamo insieme sia all’ideazione che alla realizzazione dei diversi passaggi. Non è un approccio documentario perché sarebbe passivo, collaborando diventa anche terapeutico.
Tra le foto ce n’è una in cui suo padre indossa diversi cappelli uno sopra l’altro…
L’immagine è una buona rappresentazione della sua perdita della memoria. Papà ha molte passioni, gli piace praticare yoga, cucinare con molte spezie e anche andare nei charity shop dove trova sempre qualcosa da comprare. I cappelli da una parte proteggono la sua testa che è molto sensibile, ma gli possono servire anche come senso dell’orientamento, per avere la percezione dello spazio. Ogni volta torna a casa con un nuovo cappello: ne ha almeno altri dieci dello stesso modello, ma se ne dimentica e continua a comprarne. In casa lo chiamiamo «Tony two times» proprio perché gli si devono sempre ripetere le cose due volte.
La famiglia è centrale anche nel progetto successivo, «The Children of the Wildflower» dedicato a sua nonna Ethna, morta nel 2016. Qui però si parla di un’assenza, si va a ricostruire un vuoto nella sua storia…
Con le persone che conosco meglio è più facile, per me, addentrami nelle loro storie. L’approccio fra questi due progetti è diverso, ma in entrambi si parla di ricostruzione di memorie. Quelle di mio padre sono più vicine e hanno a che fare con il quotidiano, mentre quelle di mia nonna sono multigenerazionali, perché passano attraverso i ricordi di mia madre Hazel, mia zia Tracy, mia cugina Jessy che ha 11 anni più di me e anche i miei.
In Irlanda è stata ripercorsa una storia che parla di emigrazione: la nonna lasciò giovanissima Ballinamore per andare a lavorare a Dublino e da lì, incinta, si recò a Liverpool dove partorì una figlia che le suore diedero in adozione…
Alcune storie me le raccontò mia nonna quando ero piccola. Mi aveva parlato, ad esempio, di come all’epoca gli uomini avevano molte più opportunità delle donne. I suoi fratelli poterono studiare, non lei che però, essendo estremamente intelligente, puntò sull’istruzione delle figlie. Nelle foto ci siamo tutte noi, tranne mia sorella. Ognuna ricordava delle storie e insieme abbiamo provato a immaginare come si sarebbe sentita nonna nel rimettere insieme i pezzi di queste memorie.
Perché la scelta della fotografia a colori?
La mia grande passione è la camera oscura. Quando ero all’università stampavo da me anche i negativi a colori. Lo facevo tutte le settimane. Fotografare le persone richiede molte energie, mentre la camera oscura rappresenta una pausa di silenzio. Nel mio lavoro cerco spesso la leggerezza e gli aspetti positivi e il colore aiuta ad enfatizzarli, soprattutto i toni caldi.
Lei è nata e cresciuta a South West London da padre pakistano e madre di origine irlandese, come ha influito quest’eredità culturale sulla formazione?
Quando ero piccola non sentivo un legame con il Pakistan, forse perché la famiglia era lontana e non parlo neanche la lingua. Solo a vent’anni ho cominciato a capire l’importanza di questo bagaglio culturale, soprattutto attraverso le arti applicate – gioielli, tessuti, ricami – e l’uso dei colori, i rossi, gli arancioni, lo stesso vale per il verde intenso dell’Irlanda, tutti elementi che hanno influito sull’estetica del mio lavoro. Un prossimo sviluppo di The Dog’s in the Car potrebbe essere proprio in Pakistan, recandomi con mio padre nei luoghi in cui è cresciuto e incontrando i suoi famigliari.
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