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Terapia intensiva, il piano per fare fronte all’emergenza

Terapia intensiva, il piano per fare fronte all’emergenzaReparto di terapia intensiva a Bergamo – LaPresse

Coronavirus I 5mila posti letto a disposizione potrebbero presto non bastare, i tecnici del governo chiedono di aumentare la capacità

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 5 marzo 2020

I ricoveri in terapia intensiva di persone con il Covid-19 raddoppiano ogni due o tre giorni e ora se ne contano 295. Se le strategie di contenimento non daranno frutti a breve, il numero di pazienti in terapia intensiva potrebbe presto saturare i circa 5mila posti letto disponibili tra ospedali pubblici e accreditati, già occupati mediamente per metà. All’attuale velocità, per raggiungere il tetto massimo basterebbero un paio di settimane. A quel punto, l’emergenza travolgerebbe tutte la medicina d’urgenza. Gli esperti si aspettano che il fabbisogno di posti letto diminuisca presto per le misure di isolamento e per l’aumento delle guarigioni. Ma si interrogano anche sulla capacità del sistema sanitario regionalizzato di trasferire le risorse disponibili su tutto il territorio nazionale verso i focolai localizzati.

Il governo prova dunque a rimediare. Con una circolare il ministero della Salute ha diramato le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico della Protezione Civile rivolte alle regioni. «Alla luce di quanto verificatosi negli ultimi giorni negli Ospedali della Regione Lombardia» secondo gli esperti è necessario «un aumento del 50% dei posti letto in terapia intensiva» e «del 100% del numero dei posti letto in unità operative di pneumologia e in unità operative di malattie infettive, isolati e allestiti con la dotazione necessaria per il supporto ventilatorio». Secondo l’Annuario statistico del ministero della salute, negli ospedali pubblici e privati accreditati sono disponibili circa 14mila ventilatori polmonari. Il ministero sta evidentemente invitando i dirigenti sanitari locali a metterli a disposizione dell’emergenza.

La circolare affronta anche la questione del raccordo tra enti locali, invitando ad attivare «un modello di cooperazione interregionale coordinato a livello nazionale». Si pensa a «pool di anestesisti-rianimatori» provenienti da tutte le regioni per garantire il trasporto dei pazienti critici. Il Comitato chiede la revisione dei percorsi di triage nei pronti soccorsi al fine di isolare da subito i pazienti sospetti. In troppi casi, dal “paziente 1” di Codogno al poliziotto visitato al Policlinico romano di Tor Vergata ma riconosciuto positivo al coronavirus il giorno dopo, pazienti con il Covid-19 sono rimasti a lungo in pronto soccorso col rischio di contagiare medici e infermieri.

Un fattore chiave in questo momento riguarda la sorveglianza dell’epidemia. Il comitato propone di incrementare la capacità e il numero dei laboratori abilitati ai test per il coronavirus e a ridefinire il protocollo per l’esecuzione dei tamponi. Oggi se ne fanno oltre tremila al giorno e circa il 10% del totale è risultato positivo. Uno dei nodi riguarda la possibilità di eseguire il tampone su casi sospetti che non riportano un link evidente con i focolai esistenti. Se da un lato questo aiuterebbe a individuare focolai diversi da quello lombardo, dall’altro rischierebbe di sprecare i kit diagnostici con molti falsi allarmi. I sintomi del Covid possono essere molto simili a quelli di un’influenza, che nelle scorse settimane ha conosciuto il suo “picco” stagionale.

Proprio ieri il primario del reparto di malattie infettive di Tor Vergata Massimo Andreoni, che ha dovuto gestire il difficile caso dell’agente, in un’intervista al Fatto invitava ad attivare almeno quattro punti di verifica nella sola città di Roma per aumentare la capacità diagnostica. Secondo Andreoni bisogna effettuare il tampone anche sui pazienti sospetti privi di legami chiari con i focolai noti. Per la verità il protocollo attuale non esclude questa possibilità, ma la riserva alle polmoniti gravi che non hanno altre spiegazioni.

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