Cultura

Terapia d’urto per Cheryl

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Scaffali americani «The First Bad Man», il romanzo dell'artista e regista Usa Miranda July: un percorso di formazione che devia dagli step tradizionali per strizzare l'occhio alle forze selvagge del corpo, come in una performance

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 14 febbraio 2015

Un pacchetto di pop corn al gusto di gomma da masticare (per 51 dollari), un paio di shorts di satin color caramella (56 dollari), una vecchia busta (51), un set di biancheria rosa molto trasparente (91), una molletta e una banconota da un dollaro (103, ma sono già vendute)…
Fotografati su un anonimo fondo bianco come gli indizi da un crimine di CSI, sono alcuni degli oggetti attraverso cui decifrare The First Bad Man, l’ultimo libro di Miranda July, che è anche il suo primo romanzo. A vederli (sul sito da cui possono anche essere acquistati, www.thefirstbadman.com), si direbbero i segni di uno degli universi tipici in cui l’artista californiana ci ha già trasportati, nei suoi film e nei racconti: microcosmi femminili, assorti in se stessi fino a sfiorare l’autismo, quasi sempre all’insegna di un’eccentricità articolata con cura estrema e inscenata con l’intenzionalità di una pantomima.

Come i lungometraggi The Future e Me and You and Everyone We Know, che erano raccontati attraverso lo sguardo di personaggi interpretati dalla stessa July, anche The First Bad Man è interamente filtrato dall’occhio e dal pensiero di una donna di mezza età.
Verso l’incubo
Cheryl Glickman divide la sua vita solitaria tra una casa organizzata in modo maniacale, un centro non profit dove si insegna autodifesa femminile, un neonato immaginario di nome Kubelko Bondy, e l’amore per Philip, amico dei suoi datori di lavoro notevolmente più anziano di lei.
In realtà, Cheryl e Philip si incontrano solo a qualche riunione di lavoro, hanno brevi conversazioni formali e si sentono al telefono per stabilire alcuni dettagli pratici del centro. Ma dietro a quegli scambi fuggenti, Cheryl vede la promessa di un’intesa «matura», profonda e a lungo termine, destinata a materializzarsi in maniera piuttosto imminente – anche quando lui comincia a mandarle dei messaggini in cui descrive il suo desiderio sessuale per una sedicenne.
Le routine pratiche e mentali cui Cheryl ha ancorato la sua sopravvivenza, vengono turbate quando i suoi capi le chiedono di ospitare per qualche tempo la loro figlia Clee, una ventenne bionda, abbronzata e rotonda, con i piedi che puzzano in modo pazzesco, e che – perennemente parcheggiata sul divano a guardare la tv infagottata in un sacco a pelo di nylon rosso – dimostra un disprezzo totale per i rituali della sua nuova padrona di casa.

Lotte liberatorie
La tensione tra le due donne è tale che, dopo aver trascorso settimane a osservarsi in cagnesco, disseminando qua e là piccoli gesti di provocazione reciproca, si passa allo scontro fisico: Clee e Cheryl iniziano a picchiarsi selvaggiamente, modellando i loro corpo a corpo sui video didattici del centro antiviolenza. Non si tratta di baruffe casuali, ma di «combattimenti» che somigliano a vere coreografie e che sono elaborati come messe in scena di performance art; o come gli agguati con cui il maggiordomo cinese accoglieva a casa l’ispettore Clouseau/Peter Sellers, nel film La pantera rosa.

Parallelamente a questi violenti contatti fisici, che lasciano Cheryl piena di lividi ma improvvisamente rinvigorita, all’erta, e più sicura di se stessa, la sessualità esibita, e allo stesso tempo inconsapevole di Clee manda in tilt anche il suo ordine mentale, che inizia a sperimentare fantasmagoriche fantasie erotiche di cui la sua ospite indesiderata e Philip sono i protagonisti, e che rimandano non tanto alla confusione mentale della protagonista di The Future quanto all’intensità di certe visioni di Philip Roth. O, come ha suggerito la recensione del New York Times, di Jean Genet.
Rispetto al limpido minimalismo che dominava i racconti dell’artista/regista/scrittrice, le pagine di The First Bad Man sono infatti possedute da una furia emotiva e sintattica tutta nuova. Come se lo stato di delirio euforico in cui Cheryl si sente trasportata – e con lei il lettore, dato che il libro non esce mai dalla sua testa – volesse esorcizzare una volta per tutte la stucchevolezza e l’aura «infantile» che molti associano a July: i suoi personaggi femminili sono stati occasionalmente oggetto di critica proprio per questo motivo.

Ma dietro a queste immagini e alle forme iperboliche, July rimane un’artista calcolatissima, che possiede l’assoluto controllo del suo progetto. E, ben presto, dalla furia dei pensieri di Cheryl e dall’ostilità indiferrente di Clee – sublimate nei loro combattimenti cerimoniali – emergono i sintomi di un’inattesa storia d’amore.
In tutta la sua esplosiva anticonvenzionalità, The First Bad Man è (anche) il ritratto di un’educazione sentimentale classica. In questo senso, il romanzo di pura fiction di July sviluppa delle assonanze con i valori, se non proprio con alcuni punti, in comune con Not That Kind of Girl, il libro autobiografico di Lena Dunham uscito qualche mese fa (le due sono molto amiche e un’entusiasta endorsement di Dunham grazia la copertina di questo romanzo).
Il difficile percorso nel riconoscere e accettare se stesse, attraverso una nebbia di emozioni, insicurezze, umiliazioni e desiderio. È un percorso molto au courant, una forma iper-raffinata di letteratura del self help, con il quale l’uomo del titolo – e tutti gli uomini in generale – hanno poco a che vedere. E che porterà Cheryl tra le braccia non di Philip ma aggrappata alla mano minuscola di un neonato ostinato e fragilissimo che potrebbe, o meno, essere proprio Kubelko Bondy.

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