Alias

Teranga, accoglienza

Teranga, accoglienzaUna scena dal film «Teranga»

Il documentario Un locale molto particolare nel cuore della movida di Napoli raccontato da tre registe inglesi e francesi

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 25 gennaio 2020

Nel cuore della movida partenopea, in una traversa vicino Piazza Bellini coi suoi baretti e assembramenti in strada di studenti universitari, ultras delle curve e alunni del vicino conservatorio, davanti le vestigia di mura greco-romane dell’ospitale città antica mediterranea, c’è un luogo di ritrovo di ragazzi africani, un ristorante/discoteca diventato il punto di riferimento della comunità nera, il rifugio delle ondate di migranti sbarcati sulle coste meridionali in questi ultimi anni. Ha per nome Teranga, parola in lingua wolof che vuol dire accoglienza, rispetto, ospitalità, un concetto ampio dove la teranga è l’atteggiamento disponibile, il dare il benvenuto all’ospite e che lui successivamente si sentirà in dovere di ricambiare. Un luogo dove riposare, dove offrire qualcosa da bere, qualcosa per ristorarsi, sulla falsariga dei coloni calcidesi e mercanti egiziani, quegli stranieri che venivano accolti con generosa benevolenza nel florido porto ai tempi del IX secolo prima di Cristo.

Il film
«Noi cantiamo, noi balliamo, noi ci divertiamo per dimenticare l’orrore che abbiamo attraversato prima di arrivare a Napoli» raccontano i migranti protagonisti di Teranga Life in the waiting room, il documentario che le tre registe -Sophia Rose Seymour e Daisy Squires britanniche con la francese Lou Marillier – hanno realizzato nel golfo e in Campania, seguendo le peripezie quotidiane dei loro amici centrafricani, che sarà disponibile sulla piattaforma web del quotidiano inglese The Guardian da febbraio 2020 e che avrà la sua anteprima internazionale a Napoli sabato 25 gennaio all’Asilo Filangieri. La vita in sala d’aspetto è quella dei tanti ragazzi che stanno tra color che son sospesi, non hanno il permesso di soggiorno e non possono lavorare, aspettano i documenti da richiedenti asilo per anni e sono costretti a restare nei centri d’accoglienza senza far niente, senza nessun diritto e senza potersi ricostruire una vita normale. Una tortura psicologica dopo avere superato quelle fisiche e ogni genere di privazioni.

I personaggi
Fata, un ragazzo che vuole fare il deejay, si adatta a vendere ombrelli e fare altri lavoretti per potersi comprare dei piatti e un mixer per esibirsi alle feste. Conserva le sue prime scarpe ricevute sulla nave italiana che li ha soccorsi ma sogna quelle dei pivot del basket. Yankuba era uno studente di biochimica del Gambia ma, dopo aver organizzato una marcia pacifica di protesta, è dovuto scappare dalla dittatura e ha affrontato un viaggio terribile fino in Libia dove è stato imprigionato per mesi prima della traversata in mare. Continua a studiare su internet e vuole chiedere una borsa di studio per un’università inglese. In una Napoli povera e popolare, aiutano il fruttivendolo o giocano a pallone coi bambini o guardano la tv, spesso con la solidarietà dei locali, «pigliati il ciurillo fritto! maiale non c’è dentro?» e partecipando anche alle marce antirazziste.

La regia
«Dopo aver fatto qui l’Erasmus, mi sono trasferita a Napoli nel 2015, nel mezzo della crisi dei rifugiati che accadeva in Europa. Volevo aiutare qualcuno in qualche modo e ho fatto la traduttrice per un dottore in un centro d’accoglienza. Ho rapidamente abbandonato il progetto perché ero sconvolta dal modo in cui i giovani venivano sfruttati per guadagni privati di affaristi senza scrupoli e non volevo restare imprigionata in quel sistema – ricorda Sophie Rose Seymour, attivista politica e giornalista freelance (un suo reportage sulle vacanze estive a Santa Maria di Castellabate pubblicato dal Guardian è davvero spassoso, sulle orme di Norman Douglas e Percy Allum) – Avevo fatto la local producer per una serie della Bbc, Exodus, viaggio in Europa, focalizzata sui problemi dei migranti. Nel corso dei mesi ho incontrato alcuni rifugiati nei dintorni di Napoli, li ho invitati a casa per cucinare, usare il wi-fi e passare il tempo in uno spazio sicuro, lontano dalle pressioni e dall’atmosfera negativa della vita dei Centri d’accoglienza. Fata e Yankuba sono state le prime persone con cui ho stretto amicizia: Fata voleva mostrarmi come cucinare il cibo gambiano e Yanks e io creavamo un rapporto discutendo di letteratura e musica. Con Yankuba decidemmo di creare una rivista online (Nata Nyola Migrant Journal) per pubblicare articoli scritti dai migranti. Mi sono resa rapidamente conto di quanto più si può fare per aiutarli. Sono stata in grado di offrire un tetto sopra le loro teste e offrire consigli. A mia volta, man mano, sono stata invitata da loro nella comunità di migranti in piazza Garibaldi in ristoranti segreti, discoteche e feste di compleanno e religiose. Sono stata colpita dalla capacità di recupero e intraprendenza della comunità e dalla loro gentilezza nei miei confronti. Insieme a Daisy e Lou ho sentito il desiderio di raccontare la storia di queste persone dinamiche e stimolanti che sono state così spesso negate e ostacolate dai mass media e dai pregiudizi sociali in generale. Questo ha portato alla necessità di raccontare la storia di queste persone simili a noi, ragazzi con ambizioni e progetti, costretti a una vita invisibile in attesa di documenti fondamentali e di come gli esseri umani sopravvivono, nonostante le avversità estreme. Sono stati due anni di riprese e molte storie sono state eliminate dal montaggio finale, come quella di Martina, una ballerina napoletana che ha fatto un figlio con un deejay africano. Per la post-produzione abbiamo avuto un piccolo finanziamento dal Guardian mentre le altre due registe dormivano sul divano letto a casa mia».

La musica
Canottiere sportive, cappellini da basket, cuffie stereo, i migranti vestono una divisa comune al club Teranga dove la loro musica, sia hip hop o reggae o afrobeat, e il ballo permette agli italiani di entrare nel loro mondo, d’integrarsi e di conoscere culture d’altri paesi. Il conforto sonoro, le canzoni preferite, la musica identitaria sono davvero importanti per resistere, per andare avanti.

Il cantante Lil Bo$$ e il gruppo Doz3r Starlet sono i musicisti-rapper che hanno registrato la colonna sonora del documentario. E passano il tempo a registrare brani in un piccolo studio fai-da-te in piazza Garibaldi, chiamato «One Voice», che affittano a prezzi modici saltuariamente a giovani musicisti locali. Anche nei momenti di svago però aleggia una strana malinconia. La gioiosa allegria ogni tanto ha una funzione anestetica, serve a nascondere un gran dolore, ripensando ai tuoi amici scomparsi nel deserto o in mare, a tutti quelli che conoscevi e non ci sono più. Quelli che inseguivano il sogno di una vita normale nella ricca Europa, cullavano il desiderio di lasciarsi dietro fame, povertà e violenze e non ce l’hanno fatta.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento