La mostra Ter Brugghen Dall’Olanda all’Italia sulle orme di Caravaggio, a cura di Federico Fischetti e Gianni Papi, in corso fino al 14 gennaio alla Galleria Estense di Modena, nasce dallo studio di una tela di quella raccolta, raffigurante un Santo scrivente, che nel 1657 sembra avesse l’onore di essere citata da Francesco Scannelli, nel Microcosmo della pittura, come un’opera di Caravaggio, e che dopo la sua pulitura, e un’esposizione del 2022 curata da Fischetti, è stata riferita da Papi agli anni del soggiorno italiano di Hendrick ter Brugghen.
Ma si deve fare ancora un passo indietro: nel 2015 sempre Papi aveva brillantemente proposto di attribuire all’olandese una grande Negazione di san Pietro di collezione Spier (Londra), da identificarsi con ogni probabilità con una tela citata nell’inventario della collezione di Vincenzo Giustiniani. Sebbene questa proposta non sia stata unanimemente accolta, tutto suggerisce che Papi abbia ragione, e quel dipinto, il primo numero di catalogo della mostra di Modena, è il pezzo da cui si deve partire per ricostruire il periodo italiano di Ter Brugghen: ma sarà un lavoro ancora lungo, e difficilissimo.
Abissale la differenza con la vicenda del quasi coetaneo Rubens, il cui documentatissimo soggiorno italiano del 1600-’08 ha lasciato un significativo numero di capolavori. Quei due pittori, però, sarebbero stati citati assieme – senza distinzioni di merito – dallo stesso Giustiniani nella sua celebre lettera sopra la pittura scritta poco dopo il rientro di Ter Brugghen in Olanda, come esponenti del modo di dipingere «con avere gli oggetti naturali d’avanti». Nel 1627, di nuovo Rubens incontrò a Utrecht Hendrick, per il quale, secondo le fonti, ebbe parole di grande stima.
Il titolo dell’esposizione avrebbe dovuto essere «Ter Brugghen in Italia: ipotesi di ricostruzione», o qualcosa di simile, per sottolineare innanzi tutto come qui l’oggetto sia solo ed esclusivamente quel lasso di tempo, compreso tra il 1605 circa e il 1614, nel quale Ter Brugghen soggiornò e viaggiò al di qua delle Alpi. Sebbene poi egli morisse a Utrecht ancora giovane, nel 1629, negli ulteriori quindici anni trascorsi in patria dipinse molto, e a oggi, secondo il suo più affidabile catalogo (2007), gli si riconoscono una novantina di dipinti, sparsi per i musei di tutto il mondo. Uno solo si trova in una collezione pubblica del nostro Paese, e sebbene si tratti di un’opera estrema – il Duetto di Palazzo Barberini è infatti firmato e datato 1629 – sarebbe stato bello averlo in mostra, a suggellarne il percorso.
Altri tre sono invece presenti a Modena, tutti a chiudere la ricostruzione di quell’avventura italiana che lasciò pochissime tracce. Prima di arrivare a quei numeri di catalogo (14-16), partiti dalla Negazione di san Pietro, si vedono una decina di dipinti ascritti a Ter Brugghen senza un’esitazione, senza un punto interrogativo, anzi con «rinnovate certezze» (ancora nel 2020 Papi gliene riferiva solo quattro). Alcuni sono quadri molto belli, come il San Giovanni Evangelista di Torino, e anche per altri, magari, il riferimento al maestro sembra fondato e già discusso dalla critica – è il caso della Cena in Emmaus di Vienna, su cui si tornerà. Ce ne sono poi alcuni estremamente problematici: l’Incredulità di san Tommaso di collezione privata, che proprio non sembra possibile assegnare all’olandese; un supposto Autoritratto, sempre di collezione privata, e un altro grande dipinto che potrebbe essere una bella copia dal maestro (l’Adorazione dei pastori); fino al caso di un quadro francamente impresentabile (la Salomè riceve la testa del Battista). Gli ultimi due, sia detto per inciso, sono sempre di collezione Spier, che parrebbe conservare più o meno un terzo della produzione italiana di Ter Brugghen.
A fare da vera pietra di paragone per i vari confronti, insieme allo struggente Eraclito e Democrito (del 1620 circa), è prima di tutto la Chiamata di san Matteo oggi a Le Havre – riconosciuta come opera di Ter Brugghen da Longhi nel lontano 1927 –, un prestito importante, anche per la precisa citazione dall’omonimo capolavoro di Caravaggio in San Luigi dei Francesi. Solo in questa tela si può apprezzare il Ter Brugghen più tipico, per il «cromatismo acido», il «disegno tagliente» e la «lenticolare resa dei dettagli tipicamente nordica»: tutte cifre assenti nel Ter Brugghen ancora italiano e dei primissimi anni dopo il rientro (vedi l’Eraclito e Democrito, ma anche il Pilato che si lava le mani di Lublino), quando il maestro dipingeva con una pennellata più corposa.
Il cuore della mostra ruota intorno a una precisa ipotesi critica maturata da Papi dopo la mostra del 2022, nella quale il Santo scrivente da cui si è partiti era riferito a Serodine, sulla scorta, ancora una volta, di Longhi. Ora, il discorso portato avanti a Modena, anche attraverso il confronto con due tele di Serodine (collocate però solo nell’ultima sala, quella in cui sono presenti, per contestualizzare il naturalismo di primo Seicento, anche Van Honthorst e Van Baburen), è convincente: quella tela difficilmente può essere riconfermata al pittore ticinese. E quel discorso, grazie a un’acquisizione del 1954 di Mina Gregori, decana degli studi sul caravaggismo, coinvolge altri dipinti che appartenevano al medesimo ciclo, in parte ancora custodito alla Certosa di Pavia: il San Giovanni Battista, in mostra, è affiancato a un capolavoro di Giulio Cesare Procaccini per argomentare la tesi secondo cui Ter Brugghen, al tempo del suo documentato passaggio milanese del 1614, avrebbe collaborato con quel grande maestro.
L’intuizione di Papi, suggerita da quella fulminante di Alessandro Morandotti, che già nel 1999 aveva ipotizzato la stessa collaborazione per la bellissima Cena in Emmaus di Vienna – altro prestito prezioso –, è elemento su cui ragionare, poiché certo il volto del San Giovanni Battista tradisce il linguaggio (ancora) tardo manierista di Procaccini. Ma sarebbe stato essenziale avere qui, per confronto, l’altra Cena in Emmaus di Toledo (Ohio), il più antico dipinto certamente di Ter Brugghen (firmato e datato 1616) giunto a noi.
È chiaro che deve essere la filologia a guidarci nella soluzione di rebus così complessi, ma giustamente Papi prova anche a inquadrare la questione entro coordinate più solide: Ter Brugghen avrebbe lavorato per breve tempo nella bottega di Procaccini, o quest’ultimo sarebbe stato chiamato a ritoccare tele inizialmente opera del solo Hendrick? È tutto molto scivoloso, poiché Ter Brugghen era sì giovane, ma le tele e la menzione Giustiniani attestano che fosse già riconosciuto come un maestro autonomo, e la possibilità che entrasse nella bottega di Procaccini non sembra davvero probabile. E, a dire il vero, anche quella di un lungo soggiorno milanese di Hendrick rimane tutta da dimostrare.
Inoltre, se la tela di Vienna aveva caratteristiche d’eccezione, un quadro da galleria di notevolissima qualità, è verosimile che Procaccini fosse disturbato per ridipingere, pure un po’ corrivamente, la testa di quell’altra tela che era alla Certosa di Pavia? Certo le mostre dovrebbero essere prima di tutto occasioni di studio, e la possibilità di osservare questi dipinti da vicino potrà servire agli specialisti per fare qualche passo in avanti; sarebbe però forse stato meglio fare una mostra dossier, ancor più piccola, e con i Serodine affiancati ai dipinti contesi tra il ticinese e l’olandese, in un dialogo davvero serrato.