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Tempi duri anche per il brand

In una parola Indotti, se non proprio costretti, a passare più tempo davanti alla tv, siamo più attenti a quel che ci passa il video. Anche all‘immancabile pubblicità che allunga a dismisura e […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 28 aprile 2020

Indotti, se non proprio costretti, a passare più tempo davanti alla tv, siamo più attenti a quel che ci passa il video. Anche all‘immancabile pubblicità che allunga a dismisura e disturba la fruizione di un bel film, o spettacolare fiction.

All’inizio di questa brutta avventura virale siamo rimasti un po’ sconcertati nel vedere ancora ambientazioni degli spot in vivaci situazioni conviviali dove tutto procedeva allegramente come prima. Persone estasiate dalla bontà di ogni genere di prodotti continuavano a toccarsi, saltare insieme, persino abbracciarsi e baciarsi indecorosamente. In che mondo vivevano costoro quando già il ritmo delle giornate era segnato dal conto serale dei contagiati e delle vittime?

Avevo pensato: quanto ci metteranno i maghi del brand a inventarsi nuove storie, adatte alla psicologia traumatizzata degli ipotetici consumatori? E le aziende a rassegnarsi a buttare via costose produzioni anacronistiche?

Infatti il mutamento è avvenuto. Ma il risultato mi sembra piuttosto deprimente se non francamente fastidioso.

Il racconto angoscioso delle malefatte del virus, e di tutto quello che ci gira intorno, ci assedia con le quasi quotidiane comparse del nostro premier, con gli spot a cura di questo o quel ministero e di altre zelanti agenzie pubbliche e private, e delle stesse reti televisive, che ci ricordano l’elenco sterminato e contraddittorio dei divieti e delle precauzioni imposte o insistentemente consigliate.

Ed ecco che anche quando irrompe quel signore che non smette mai di progettare divani o di sfornare tutti i tipi di pasta, di conserve e di ortaggi, il messaggio si carica di affezioni melense, di frasi retoriche sul fatto che tutti dobbiamo aiutarci e essere buoni, di moti di speranza fasulla sul nuovo domani che presto ci arriderà.

Persino le belle musiche di Puccini o del grande Bach suonano come jingle banali e noiosi, conditi con le citazioni del tricolore e degli «eroi» che negli ospedali si sfiniscono per arginare la malattia. (E in questa cacofonia edificante nei giorni scorsi persino la canzone dei partigiani ogni tanto sembrava perdere il suo tono controcorrente…)

Non sono mancate paginate sui quotidiani di aziende che mettono in mostra, piene di riconoscenza e di lodi, nomi e immagini dei propri dipendenti, impegnati a proprio rischio nelle attività produttive. Da vecchio quasi marxista quasi ortodosso non ho potuto reprimere un moto reattivo: volete forse convincerci che la contraddizione tra capitale e lavoro è un luogo pieno di buoni sentimenti?
Insomma. Se volete continuare a vendere lo spazzolino, il ditalino, il pannolino, ditemi sinteticamente perché dovrei comprarlo – e magari come e dove di questi tempi – e lasciate perdere le retoriche pandemiche.

Ho appreso con ammirato stupore che alcuni grandi marche – e qui si vede lo stile che non manca in certi piani alti del capitalismo – hanno semplicemente deciso di sospendere ogni messaggio pubblicitario, dimostrando maggiore serietà di fronte a quanto accade nel mondo. (Non per caso si tratta per esempio di chi produce una famosa e ormai antica bevanda gassata a diffusione globale).

Ho anche visto, in qualche ricerca di mercato, che i consumatori intervistati preferirebbero messaggi scherzosi e fantasiosi. Meno engagée. Come dargli torto?

C’è poi quel surreale tizio che, per promuovere i tamponi destinati ai maschi che non trattengono la pipì, compare giulivo in diversi gruppi monosex (niente mascherine e distanze di sicurezza) per additare pubblicamente «chi ha quel problema».

Una spia della fine del patriarcato, o di una certa tendenza alla delazione di massa?

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