Cultura

Temim Fruchter, la strana inquietudine di un desiderio intergenerazionale

Temim Fruchter, la strana inquietudine di un desiderio intergenerazionaleTemim Fruchter (fonte: edizioni Mercurio)

LETTERATURE Intervista alla scrittrice statunitense, ebrea e queer, sul suo romanzo di esordio «Città che ride» (Mercurio). Ospite a Roma in due incontri: oggi nell’ambito del festival Letterature e sabato alla Libreria Tuba. «Capre, demoni, arcangeli e visitatori misteriosi. Ho attinto a figure del folclore che ricordo nelle fiabe che mi raccontavano»

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 11 luglio 2024

Sulla strada di ritorno da Ropshitz, El posa una piccola pietra sul palmo della mano di Shiva spiegandole il significato della teoria dell’universo a blocchi. Passato e futuro stanno accanto al presente, poi c’è l’istante che svetta dallo scorrere e che accade. Illuminandosi, al tocco. Nell’esordio letterario di Temim Fruchter, Città che ride (Mercurio, pp. 370, euro 20, traduzione di Gabriella Tonoli), lo spazio e il tempo sono categorie importanti e altrettanto cangianti. Come lo sono gli incontri, quando si depositano e disallineano le nostre origini.
Ebrea, queer, non binaria e antisionista – come lei stessa si definisce – Temim Fruchter consegna un romanzo insolito e commosso in cui la relazione, in particolare matrilineare, è il pungolo attraverso cui si dipanano gli anni e i segreti di una famiglia.
La scrittrice statunitense sarà ospite a Roma in due date: oggi nell’ambito del Festival Letterature (dalle ore 21, Stadio Palatino). E sabato in dialogo con Nadia Terranova alla Libreria Tuba (ore 19).

Tra folclore yiddish, mondo queer e spiritualità, «Città che ride» il suo romanzo è una miscela indomabile di storie. Molti sono i livelli di lettura, il primo è la famiglia, la sua genealogia e le parole che spesso non si trovano per scoprirne la complessità.
Credo di aver voluto che il romanzo sembrasse un po’ affollato e indisciplinato. Credo perché quando penso alle mie domande esistenziali, molte delle quali iniziano con la mia ascendenza e la mia famiglia, non c’è un vero modo per districarle da «tutto il resto» dell’essere una persona e dell’essere vivi in questo mondo. Per quanto mi riguarda, una persona queer con una vita e una pratica spirituale, ho capito qualche anno fa che le domande che ho sulla provenienza di tutti noi e sulle cose nascoste sotto il nostro naso resistono al linguaggio. Sono domande che sento viscerali. Mi sembrano di orientamento verticale, radicate nel desiderio, nel corpo, in un immaginario generazionale a cui ho un certo margine di accesso. Ma non si sentono realmente «domandabili»; non a parole, almeno. Ho scritto questo libro per cercare un altro modo per chiederle.

Il legame tra Shiva Margolin e e le sue antenate è l’amore; sembra più una domanda sull’amore e sulla guarigione. Da quale strana inquietudine sono assalite le creature del suo romanzo?
La strana inquietudine descrive molto di ciò che il desiderio queer può sembrare e sentire. La sensazione di essere sempre in movimento e di un desiderio che può spostarsi, espandersi e cambiare forma. L’idea di questo libro è nata da diverse circostanze, una di queste è stata guardare una vecchia foto di mia nonna e pensare che, secondo me, avrebbe potuto essere una donna queer. Non sto certo dicendo che lo fosse; sto semplicemente dicendo che se lo fosse stata, probabilmente non lo avrei saputo. La queerness è così spesso nascosta, non codificata o cancellata nelle nostre storie ancestrali, eppure in Città che ride volevo che anche quelle generazioni sperimentassero un tipo di desiderio queer, anche se diverso dalle rappresentazioni più contemporanee. È qui, credo, che sorge la strana inquietudine. Mira desidera ridere, essere rumorosa. È altra e vuole essere vista, ma anche protetta. Syl desidera volare con gli uccelli. Anche lei vuole rimanere protetta, ciò tuttavia richiede di rinchiudere una parte di lei, quella che rimane verso il cielo. Sono strane inquietudini e strani desideri. Seguono questa linea ancestrale finché Shiva non si volta, per affrontarla frontalmente.

Lo spazio e il tempo sono categorie importanti nel suo romanzo e anche per Shiva: decide di andare fino a Varsavia per trovare l’aria di Ropshitz. E questo spostamento geografico le fa incontrare un altro aspetto della linearità temporale.
Non so molto di fisica quantistica, ma sono sempre affascinata da ciò che la scienza può spiegare al di là della nostra immaginazione. Il tempo e lo spazio sono più strutturati e misteriosi di quanto possiamo comprendere. Nel romanzo ho voluto fare leva su questo aspetto, per dire che anche se il tempo avanza, non è solo lineare. Voglio credere che possa essere stratificato, simultaneo e queer, e volevo che questo libro fosse un luogo in cui i teoremi della meraviglia potessero dimostrarsi veri. Così ho lasciato che il tempo diventasse tutte queste cose.

Altri protagonisti del suo romanzo sono le terre di mezzo e le creature soprannaturali, come il «dibbuk», che lei ha ereditato dalla lettura dello scrittore e attivista russo Semën An-skij.
Sono cresciuta in una famiglia ebrea religiosa dove, dopo le lunghe cene festive del venerdì sera, i miei genitori ci raccontavano le fiabe. Quei racconti hanno formato il tessuto della mia immaginazione e la mia insistenza di sempre sul fatto che il confine tra il mondo conosciuto e quello meno conosciuto sia davvero molto sottile e talvolta sfocato. Per la stesura di questo romanzo non mi sono servita di specifiche fonti folcloristiche, ma ho attinto ai tropi e alle figure che ricordo essere comuni in quelle storie. Capre, demoni, arcangeli e visitatori misteriosi. Ho guardato a Marc Chagall e ho letto di Isaac Bashevis Singer e di sua sorella, Esther Kreitman. Ho letto l’avvincente storia della fanciulla di Ludmir, che era importante anche per An-skij. E, naturalmente, ho letto a fondo su An-skij e ho studiato il suo singolare questionario etnografico, che è anche presente nel libro.

Parliamo del «messaggero», questo essere che attraversa i secoli. Non ha un genere sessuale definito e sembra essere la metafora del piacere erotico. Non è l’angelo della Storia, ma ha bisogno di un destinatario. Come ha lavorato su questa figura?
È curioso che il messaggero sia nato da una mia fissazione per l’arcangelo Gabriele. Ho sempre amato Gabriele come figura, forse perché sono attratta dall’idea che il «messaggero» sia l’identità principale di qualcuno. Ho anche sempre pensato a Gabriele come a una figura non binaria. Quando ho iniziato a lavorare a questo romanzo, ho cominciato a sviluppare il folklore interno del libro, che sapevo si sarebbe basato sul trasporto di lettere, messaggi e carichi misteriosi. Mentre scrivevo, mi sono resa conto che il romanzo stesso poteva essere un messaggio che aveva bisogno di un messaggero. Ho affidato a questo personaggio l’intera storia, che a volte immagino come un ingombrante racconto popolare. Inoltre, mentre giocavo con il pensiero di questo motore del desiderio queer che si muove attraverso gli anni di una famiglia, volevo creare un essere mutevole, al di fuori del tempo, capace di trovarsi faccia a faccia con ogni generazione di queste donne, ed essere anch’esso soggetto al modo in cui ogni donna ha seguito o meno quel desiderio.
Solo più tardi, quando ho iniziato a fare ricerche su An-skij, ho capito che anche nel Dybbuk c’è un personaggio chiamato «il messaggero», la cui presenza conferma che qualcosa di ultraterreno sta per accadere. E mi è sembrata la giusta sincronicità. Man mano che incorporavo il lavoro e la vita di An-skij in questa storia, il personaggio del messaggero si approfondiva e si annidava ancora di più nella coscienza del libro.

La risata è umana e non umana. Per lei è sinonimo di libertà?
Premetto che ho una risata molto forte, di quelle che fanno girare la testa quando sono in pubblico. Quando ho scoperto che la mia bisnonna era originaria di Ropshitz, un luogo noto anche per uno dei più famosi badchanim, giullare che intrattiene gli ospiti nel corso di un matrimonio ebraico, mi è piaciuto immaginare che la mia risata fosse in qualche modo ereditata, tramandata da quel luogo. È stato così che ho iniziato a creare la leggenda della risata che ha dato forma al romanzo. Oggi penso alla grandezza e al volume della mia risata come a una parte del modo in cui mi muovo nel mondo come donna ebrea queer. Non sono sottile o silenziosa, e questo va bene ed è meraviglioso per me. Ma per alcune persone, e in alcuni periodi di tempo, in particolare, questi modi di essere possono significare che qualcuno è un altro. Per Mira, in particolare, ho pensato che essere rumorosa e sfacciatamente gioiosa potesse segnarla come altra nello shtetl in cui è cresciuta. Quando ride, non sta reprimendo ciò che le viene detto di essere. E nella sua storia, volevo darle l’opportunità di avvicinarsi a quella selvatichezza, a quella presenza grande, queer, gioiosa, invece di allontanarsene.
Per certi versi lo considero un romanzo femminile, e volevo che fosse grande e forte fino in fondo. Lo considero anche un romanzo profondamente ebraico, e la mia tradizione ebraica dell’Europa orientale è davvero inestricabile dall’umorismo. Per entrambi questi motivi, la risata era essenziale, sia metaforicamente che letteralmente.

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