A fine febbraio, proprio alla vigilia dell’entrata in vigore del Jobs Act, l’amministratore delegato di Telecom, Marco Patuano, aveva annunciato 4 mila assunzioni da qui al 2017, favorite soprattutto dai nuovi sgravi varati con la legge di stabilità. Ma nel panorama mediatico “renziano”, quella promessa era subito apparsa come un assist ai provvedimenti del governo, che si aggiungeva ai 1500 posti su cui si era impegnata la Fca di Sergio Marchionne. Il problema è che di quelle 4 mila assunzioni non c’è traccia, e anzi i sindacati temono che, al contrario, saranno in migliaia ad uscire dalla compagnia telefonica, in forza della riforma caldeggiata dal management, la “societarizzazione” del customer care: quindi ieri i 40 mila dipendenti Telecom hanno scioperato, per tutta la giornata.

La Slc Cgil spiega che gran parte della responsabilità per le mancate assunzioni sta nel fatto che il governo ha deciso che per il momento non verrà finanziata la cosiddetta «solidarietà espansiva»: «A differenza di quella difensiva – dice Riccardo Saccone, della segreteria nazionale Slc Cgil – serve a contenere i costi, ma con la finalità di assumere. Solo che quelle che sono le rinunce dei dipendenti, devono avere una contropartita in un sostegno dall’Inps, che però non è mai arrivato. Sicuramente questo strumento, abbinato agli sgravi, avrebbe potuto permettere di svecchiare il personale: l’attuale età media è di circa 48 anni, troppi se si pensa che Telecom è un’azienda che dovrebbe trovare il proprio focus nell’innovazione. E se si accettuano poche decine di nuovi ingressi ogni tanto, sono anni che la compagnia delle tlc non assume».

Ma una responsabilità nelle incertezze vissute dal personale, ce l’ha anche l’azienda, e da qui lo sciopero: «Si tratta di un vecchio piano, già ideato sotto la gestione di Franco Bernabè, la cosiddetta “societarizzazione” del customer care – spiega il sindacalista della Slc Cgil – In sostanza, si vuole isolare in una società distinta tutto il personale che opera nell’assistenza ai clienti, principalmente i call center, si parla di circa 10 mila persone. Avevamo già stoppato questo progetto, anche in forza di un accordo siglato con l’azienda, ma adesso la nuova dirigenza è tornata all’attacco. Il problema è questo: se metti sul mercato addetti che oggi costano il 30-40% in più di un operatore in outsourcing, ad esempio di Almaviva, è come se li stessi posizionando nel mirino».

E a «sparare», in questo caso, sarebbe il mercato stesso: i 10 mila, diventati velocemente «poco competitivi», verrebbero subito spazzati via dalla concorrenza delle aziende che assumono persone a costi più bassi (non solo gli addetti in Italia, ma soprattutto quelli all’estero, «delocalizzati», come si suol dire). Ecco perché i dipendenti Telecom, rimasti in qualche modo ancora dei «privilegiati» (la compagnia ha ancora dentro il 60% del customer che opera a suo nome, contro il 30% medio delle altre compagnie) adesso hanno paura.

Tra l’altro, il Jobs Act ha di recente fatto un altro «regalino» poco gradito ai dipendenti del colosso telefonico, e non solo a loro: invece di varare il tanto atteso finanziamento della solidarietà espansiva che avrebbe favorito le 4 mila assunzioni annunciate, la riforma made in Renzi si è concentrata piuttosto sul telecontrollo, autorizzando i controlli a distanza in assenza di un accordo sindacale (la Cgil parla di «Grande fratello»).

Una beffa per i dipendenti Telecom: che qualche mese fa, con un referendum, hanno bocciato sonoramente l’accordo tra sindacati e azienda sui «controlli individuali». Avrebbero dovuto, secondo i manager, migliorare la produttività, scongiurando in cambio (o perlomeno ritardando) la temuta societarizzazione. Quel che è uscito dalla porta, rientra dalla finestra.