Telecom e le strane scelte del governo
Ri-Mediamo La rubrica settimanale a cura di Vincenzo Vita
Ri-Mediamo La rubrica settimanale a cura di Vincenzo Vita
Un altro mistero nell’accidentata vicenda della banda larga e ultralarga.
Ora, dopo anni di disinteresse, sembra diventata all’improvviso oggetto dei desideri l’area chiamata dal linguaggio liberista «a fallimento di mercato». Vale a dire la cospicua parte del paese dove non sono ipotizzabili ritorni economici in tempi brevi, e tuttavia assai rilevante sia sotto il profilo quantitativo (circa 3.000 comuni per 4 milioni di unità immobiliari) sia sotto quello del finanziamento previsto ripartito con l’Europa.
In ogni caso, stiamo parlando di un moderno diritto di cittadinanza, da considerare importante come la scuola e la sanità ai fini dello stato democratico e dell’applicazione del principio di uguaglianza previsto dall’articolo 3 della Costituzione. Dunque, ben vengano gli investimenti, pubblici o privati che siano.
Qui il mistero. Perché nei giorni passati diversi esponenti del governo hanno attaccato pesantemente Tim-Telecom per il solo fatto che l’amministratore delegato Cattaneo ha annunciato di voler partecipare alla copertura delle zone meno redditizie?
È vero che si è conclusa la gara prevista: ma per l’assegnazione delle risorse. Sono precluse le eventuali scelte degli altri operatori di intervenire? Il rapporto tra i governi e l’ex monopolista delle telecomunicazioni è un groviglio di misteri.
Dopo una forzosa privatizzazione, mal gestita, avvenuta negli anni Novanta e pur avendo assistito pressoché silente alla scalata di Bolloré-Vivendi (contrastata, invece, nel caso di Mediaset), l’esecutivo non perde occasione per emarginare un’azienda quotata in borsa e ad alta intensità di lavoro.
Insomma, è bizzarro che si adottino pedissequamente le classificazioni europee e proprio le zone periferiche del villaggio globale siano trattate con le logiche dei mercati forti, dove sì hanno senso le regole sulla concorrenza.
Non solo. La società che ha vinto la gara è la Open Fiber, costituita per una metà da Enel e per un’altra da Cassa depositi e prestiti.
È lecito domandarsi quale sia l’origine – al di là della gara – di un simile cambio di cavallo, peraltro utilizzando denaro pubblico per realizzare ciò che un’azienda privatizzata aveva annunciato di voler fare. Quello stesso denaro meglio sarebbe stato impegnarlo per incentivare l’utilizzo della banda larga e ultralarga da parte dei ceti non abbienti, attraverso un oculato sostegno della domanda. Almeno come avvenne per il decoder digitale, quando l’imperativo categorico era l’incremento del numero dei canali per mantenere aperta Retequattro.
Insomma, è tutto un po’ strano. Non a caso proprio oggi si terranno nelle competenti commissioni del Senato le audizioni di Open Fiber e di Tim-Telecom. È augurabile che il parlamento si riappropri delle prerogative di indirizzo su di un decisivo servizio universale.
Qualche cattivo pensiero, però, viene. In una recente ampia intervista a «Prima comunicazione» Cattaneo ha espresso la volontà di entrare nella sfida dell’offerta e della produzione dell’era dell’«infosfera». Le generazioni digitali preferiscono nettamente al vecchio schermo la convergenza on line, fruita soprattutto attraverso i supporti mobili.
Se poi Tim si cimentasse pure nella creazione di programmi e fiction «alla Netflix», allora scatterebbe il solito allarme rosso. Gli interessi di Rai, Mediaset e Sky sarebbero intaccati. Il cavo a suo tempo fu bloccato per non disturbare.
Si chiuda definitivamente, piuttosto, l’epoca del rame, con il concorso di pubblico e privato. Il contrario delle scelte di oggi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento