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Teatro di Giovanni Raboni, una dialettica civile con la poesia

Cooperativa Teatro Franco Parenti, 1988, Cantico di Mezzogiorno di Paul Claudel. Traduzione: Giovanni Raboni e Andrée Ruth Shammah; regia: Andrée Ruth ShammahCooperativa Teatro Franco Parenti, 1988, Cantico di Mezzogiorno di Paul Claudel. Traduzione: Giovanni Raboni e Andrée Ruth Shammah; regia: Andrée Ruth Shammah; scene e costumi: Ettore Sottsass

Tutto il Teatro di Raboni negli Oscar Baobab «Rappresentazione della Croce», «Alcesti», 14 versioni dei classici da Sofocle a Claudel: il Raboni drammatico (Eliot il suo modello) a cura di Massimo Natale

Pubblicato circa 7 ore faEdizione del 17 novembre 2024

Non è possibile concepire una storia della poesia – o meglio, del genere lirico – che non sia una pura astrazione, o una vicenda di sole forme svincolate da intenzioni e valori. Per questo, alcune delle più influenti antologie (per il Novecento, quelle di Fortini e di Mengaldo per esempio) non tendono a disegnare un percorso lineare, ma a delimitare uno spazio più vario e discontinuo, abitato non dalla ‘poesia’ ma dalle esperienze dei singoli poeti, con le loro affinità o divergenze. Tuttavia, anche un panorama di soli ‘poeti’ è una rappresentazione stilizzata, che non aderisce se non in parte alla realtà della scrittura. Moltissimi autori e autrici di poesia hanno praticato e incrociato altri generi (narrativa, saggio, teatro) e arti (tra queste, nel Novecento, anche il cinema). Di fatto la poesia, anche quella lirica, è stata spesso una forma di dialettica con altre espressioni: non solo perché, come sosteneva Montale, la poesia nasce spesso dal «semenzaio» della prosa, ma anche perché un’opera in versi comprende facilmente testi che lirici non sono: composizioni o traduzioni teatrali, ad esempio.

È il caso di Giovanni Raboni, di cui è uscita da poco un’imponente raccolta di opere e scritti legati al genere drammatico: Teatro Testi e traduzioni, a cura di Massimo Natale (Mondadori «Oscar Moderni Baobab», pp. LVIII-1266, euro 30,00). Il volume include in particolare le due opere teatrali di Raboni, Rappresentazione della Croce (2000) e Alcesti o La recita dell’esilio (2002, messa in scena nel 2004), presenti anche nel «Meridiano» dell’Opera poetica, curato da Rodolfo Zucco nel 2006. A queste opere originali, si aggiungono quattordici versioni raboniane di altrettanti capolavori teatrali antichi e moderni, raggruppate e disposte per autore e non in ordine cronologico. Cosicché le sezioni più ampie, in particolare le prime due, dedicate ai classici del teatro francese, corrispondono a altrettante ‘monografie’ indirette o ‘arcipelaghi’, come li definisce il curatore: si va da Molière (Don Giovanni e La scuola delle mogli) a Racine (due versioni della Fedra, rispettivamente del 1984 e 1989; Berenice e Atalia; un frammento dell’Esther, vv. 1-141); da Maeterlinck (La morte di Tintagiles, di cui Raboni volge in italiano una riduzione per lo spettacolo Macchina dell’amore e della morte di Tadeusz Kantor) a Claudel (Cantico di Mezzogiorno e Il cammino della croce); da Hugo (il Ruy Blas, pubblicato da Einaudi nel ’96) a Marivaux (Le false confidenze); da Sofocle (l’Antigone, anche questa già nell’Opera poetica) a Eliot (Assassinio nella cattedrale). Ultimo è Il mercante di Venezia di Shakespeare, la cui traduzione era rimasta finora inedita, affidata a un manoscritto nell’archivio di Raboni, e naturalmente mai portata in scena.

Il volume è completato dalle notizie sui testi e da un’appendice di autocommenti molto utile per collocare e interpretare la lunga relazione dell’autore con il teatro. Anzi, con la forma del dramma, che incide fin dall’inizio sulla sua poesia; la confidenza teatrale di Raboni, infatti, dipende da un’originaria adesione a strutture e valori ricavati dal dialogo drammatico. In questo senso, per riprendere le questioni che ponevamo in apertura, l’esperienza di Raboni ha un rilievo specifico nella dialettica novecentesca tra la lirica e le altre forme. Non si tratta solo della pratica concomitante di due generi, né di uno scambio o incrocio di forme; si direbbe invece che per Raboni la lirica sia nata da una radice drammatica, riscoperta in seguito e fatta germogliare nella scrittura per il teatro. O almeno è questa una delle linee d’evoluzione che il lettore può riconoscere e seguire attraverso il volume, che culmina nei paratesti in appendice a cui si accennava. Ne fa parte anche un’intervista del 2001 in cui il poeta, rispondendo alle domande di Daniele Piccini su Rappresentazione della Croce, osserva: «Tenga conto che ero partito da questo tema cinquant’anni fa, con la scrittura delle poesie sulla Passione intitolate Gesta Romanorum. Collego quelle mie scritture giovanili a una ispirazione figurativa, quella della scultura romanica. (…) Scrivendo la Rappresentazione ho avuto una grande impressione di circolarità, come se fossi riuscito a inglobare tutto quanto ho fatto finora, a chiudere un percorso». La corrispondenza fra Rappresentazione e Gesta è in effetti evidente, a cominciare dalla struttura in quadri o stazioni, che ricordano appunto la forma della sacra rappresentazione (o un’evangelica Spoon River).

Ma le figure dei Vangeli persistono anche nella poesia matura di Raboni, continuano a intensificarne il senso e disegnarne la struttura etico-civile; per esempio nei versi di L’alibi del morto, in cui il personaggio di ‘Giuda’ allude (per anagramma) al questore di Milano, Marcello Guida, implicato nella vicenda della morte di Giuseppe Pinelli. Lo straniamento temporale, ispirato come diremo dal modello decisivo di Eliot, fa reagire il passato con il presente, riducendo la distanza cronologica per mezzo di una simmetria di tipo assiologico. È appunto nei valori, e in particolare in quella religione civile di cui è pervasa l’opera raboniana, che si individua un altro nesso tra la Rappresentazione e i primi versi; è «ben vivo, in Raboni» scrive Natale nell’introduzione «il ruolo del teatro quale istituzione fondante per il vivere civile, antichissimo punto di riferimento della polis – anzitutto della sua Milano – e di chi la abita».

Un’altra corrispondenza è quella che si sviluppa all’insegna del Don Giovanni; la traduzione da Molière è l’esempio migliore, scrive ancora il curatore, «di un incontro – quello fra un’opera e il suo traduttore – che non può che apparirci naturale», visto che proprio dal ‘macrotesto’ dongiovannesco Raboni attinge il titolo mozartiano della sua prima plaquette, Il catalogo è questo (1961).

Una delle qualità che giustificano il progetto e la confezione di un volume di tanta mole, in parte sovrapposto alla summa del «Meridiano», consiste proprio nell’offerta di queste prospettive di lunga durata, che attraversano i generi e le epoche letterarie ripercorse da Raboni nell’arco della sua poesia. La diacronia dell’itinerario teatrale di Raboni fa emergere però anche la vocazione sincronica dell’autore; come osserva giustamente Natale, il «traduttore e uomo di teatro» è dotato di un’«estrema duttilità», di una «capacità di sintonizzarsi (…) su testi e momenti del tutto diversi fra loro».

Anche in questa propensione per la simultaneità Raboni si lascia accostare a Eliot, nel cui segno – come si accennava – si svolge un lungo tratto della poesia e s’inscrivono l’idea e la pratica raboniane del teatro. «Poeta che io venero», così Raboni definisce Eliot, in un intervento tenuto all’Università Cattolica di Brescia nel 2003 su Alcesti o la recita dell’esilio; la traduzione di Murder in the Cathedral, rappresentato al Teatro Biondo di Palermo in quello stesso anno, chiude emblematicamente la serie dei testi editi nel volume e rende tangibile quella venerazione.

Ma nei confronti di Eliot, in particolare di Cocktail Party, Raboni dichiara un debito ancora maggiore: vi riconosce il modello che lo ha ispirato a comporre per il teatro scrivendo in versi anziché in prosa. Il teatro in versi infatti, afferma ancora nella conferenza del 2003, non è «soltanto una grande possibilità messa a frutto nel secolo scorso» ma anche «una delle poche possibilità future per la sopravvivenza del teatro. Se ci pensiamo, gran parte del teatro del Novecento è in versi: una cosa su cui forse non si riflette mai abbastanza; persino il teatro italiano recente, da Pasolini a Testori, è in versi. Ci sarà una ragione. Per me il maestro all’origine di tutto questo è Eliot». Un maestro che incide anche nelle scelte stilistiche, per esempio nella modulazione dei metri adottati nell’Alcesti, in cui il passaggio dall’endecasillabo ad altre misure, come il novenario e il settenario, vuole assecondare la prosodia del parlato.

Questo avviene non per addomesticare il contenuto tragico dell’opera, ma per calarlo nell’esperienza che, muovendo dalla dimensione del mito, raggiunge la Storia contemporanea e la politica. A conferma del presupposto civile del teatro raboniano: «Ho cercato di disseminare vari indizi», commenta l’autore illustrando i temi di Alcesti, «ma sullo sfondo di una persecuzione storica, di un destino che è il destino di una violenza storica, di una violenza politica».

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