C’è qualcosa che mette a disagio nel nuovo film di Ginevra Elkann, Te l’avevo detto, presentato alla Festa di Roma, da oggi in sala. E non solo per l’attualità climatica della capitale immersa a Natale in un calore che si fa sempre più violento, un po’ come accade già in questo strano inverno senza inverno, trasformando la città in un’allucinazione i cui contorni sfumano nel giallo-arancio-rosso polveroso (la fotografia è di Vladan Radovic) fino a evaporare. Ma è soprattutto ciò che i personaggi esprimono a colpire, a fare male, disegnando nelle incertezze – e anche in qualche goffaggine di scrittura – gli inciampi dello stare al mondo. Fragilità, fantasmi famigliari, quasi che la moltitudine che si aggira nella città eterna apocalittica – un po’ come in La strada, di McCarthy – sia la stessa persona o una serie possibile di variazioni sull’animo umano, sul femminile in particolare che caratterizza la narrazione, e che l’autrice riesce a dire senza retorica né crudeltà, in modo semplice, diretto, per questo ancora più doloroso.

AL CENTRO di questi accadimenti senza una «storia» che non sia appunto il tentativo di confrontarsi con sé stessi – e dunque con passato e presente – c’è un prete, padre Bill (Danny Huston), il solo che ha rapporti con più personaggi; da lui cerca conforto Gianna (Valeria Bruni Tedeschi), impazzita quando il marito l’ha tradita (e lasciata) per l’amica porno star Pupa, (Valeria Golino in una versione pop art di Cicciolina) che prega e si confessa ma solo per sentirsi dire ciò che vuole; quando la incontriamo nelle prime scene fa sesso con un giovane che scoprirà lavora per Pupa a cui lei non deve avvicinarsi dopo un ordine restrittivo ricevuto per averla aggredita diverse volte. Sua figlia Mila (Sofia Panizzi) si preoccupa della salute mentale di sua madre ma è andata via di casa, lavora come badante da una signora anziana e ricca (Marisa Bonini) e soffre di disturbi alimentari: a ogni telefonata materna si ingozza di cibo fino allo sfinimento e ne ordina altro dal delivery, un ragazzo carino che vorrebbe uscire insieme a lei.

Un ordine restrittivo tiene lontana da suo figlio Max (Andrea Rossi) anche Caterina (Alba Rohrwacher), spirito irrequieto che nel vino e negli alcolici trova sostegno. Il marito (Riccardo Scamarcio) ha chiesto e ottenuto dal tribunale che non sia avvicini al loro bambino eppure per il suo compleanno, attenta a non far capire che in realtà nonostante le assicurazioni beve sempre – arriva alla festa portando un regalo speciale, unico come solo lei sa fare utilizzando la creatività della sua fantasia. Anche Caterina va da padre Bill che tiene degli incontri di gruppo per persone con dipendenze, lui che si è sempre strafatto di eroina e continua a tenere una siringa con dose pronta per l’uso in caso di stress insopportabili. Come è quello della sorella (Greta Scacchi) arrivata dall’America dopo anni senza vedersi, con le ceneri della madre e soprattutto con quel bagaglio di rimossi infantili di violenza famigliare.

E che dire di Pupa ormai stanca e piena di botox, che «tanto il porno lo fa chiunque» – sospira ai suoi fan – mentre si prepara a un nuovo concerto? Fa caldo, caldissimo, tutti sembrano sciogliersi, intanto la voce alla radio continua a parlare dei «laghi» dove trovare il fresco. Esisteranno davvero? O sono solo un’invenzione, il miraggio di un altrove nel quale rifugiarsi, ritrovarsi, trovare pace da sé stessi?

COME già nell’esordio Magari si possono cogliere riferimenti autobiografici di Elkann – che ha scritto la sceneggiatura con Chiara Barzini e Ilaria Bernardini – al proprio vissuto famigliare, a cominciare da quella relazione stridente con la madre che attraversa l’esperienza dei personaggi intrecciandosi al loro desiderio di fuga, a un costante essere sul bordo cercando un equilibrio, pure se caotico con sé stessi nei retaggi di famiglia, religione, patriarcato, e nella solitudine che governa le loro esistenze. In cui echeggia come un monito la frase del titolo, quel «Te l’avevo detto» così giudicante, non unicamente genitoriale ma di amici o amanti, degli altri che spostano l’occhio dai propri limiti a quelli altrui per sentirsi così sollevati – o forse «perdonati».

Eppure il film nella sua ricerca senza lieto fine, e con la saggezza affidata ai più piccoli – «non voglio fare figli, il pianeta è già troppo affollato» dice il ragazzino Max alla madre – tra cani paralitici e zanzare fuori stagione, fughe notturne e improvvise liberazioni, compone un movimento che al malessere esplicito, quasi fisico, sa contrapporre l’energia di uno sguardo in profondità. Lì la regista sa cercare senza fermarsi, inventare piste a sorpresa, interrogare noi che guardiamo fra quei conflitti di narcisismo, paure, inadeguatezza, caos quotidiano senza sottrarsi, anzi mettendosi in gioco con un cinema che non ha bisogno di trucchi e senza paura di sé.