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«Taxi monamour», commedia di malinconica psichedelia

«Taxi monamour», commedia di malinconica psichedeliaUna scena da «Taxi monamour» di Ciro De Caro

Cinema Nelle sale il film di Ciro De Caro, premio del pubblico alle Giornate degli autori

Pubblicato 29 giorni faEdizione del 11 settembre 2024

Un cinema nervoso, vibrante – tutto un brulicame d’aria, di luce formicolante – quello di Ciro De Caro, tra i registi italiani più coerenti e riconoscibili della sua generazione, sempre in bilico – ma il valico, il limine, è la giusta dimensione di una pratica, il cinema, che è per sua natura «verifica incerta», inafferrabile, teso tra spettro e corpo, morte e resurrezione delle immagini – tra dramma e commedia, l’intrusa inquietudine dei soggetti e l’astrusa esteriorità di sagome che mentre stanno al mondo, non possono che mostrare la propria goffaggine, la propria inadeguatezza, l’insicurezza esistenziale: la propria endemica comicità di marionette.

DOPO ESSERE passato alla Mostra di Venezia, nelle Giornate degli autori dove si è guadagnato il premio del pubblico, è ora in sala Taxi Monamour, quarto lungometraggio di De Caro, film di grande levità umoristica e di profondità malinconica, che sembra portare addosso i segni di quel cinema venuto dopo la commedia all’italiana (e che in realtà, pur volendola esorcizzare, metteva a frutto quell’esperienza), dal primo Moretti al Bertolucci di Berlinguer ti voglio bene (ma senza il furore iconoclasta), al Troisi degli esordi cinematografici: c’è forse nel film una citazione di Scusate il ritardo, quando i due fratelli, uno celebre, l’altro scalcagnato, discutono del compleanno della loro madre, mentre aleggia lo spettro uno e trino dell’insalata di riso, già scena di culto insieme ad altre in cui Valerio Di Benedetto è irresistibile, magnifico mattatore nelle sue querimonie a proposito di appendiciti, acconciature da signora, notti insonni a subire le paturnie di sua sorella.
Storie di tutti i giorni, domesticità degli spazi (anche negli esterni), dialoghi familiari addensati dalla sensibilità della macchina da presa di De Caro che si posa sulle cose facendone sentire la vera, granulosa sostanza. È un cinema psichedelico, per il senso di deliquio che ti prende nel momento in cui la ripresa si dilata, ne dilata le cose, le essenze di cui si nutre, la materia di cui è fatta, sfatta, sfibrata, di cui diviene: «essenzialmente» durata e casualità dell’apparenza, del sedimento audio-video, in senso rosselliniano, del sentimento audio-video. Non c’è un oggetto-cinema già tutto dato, definito: piuttosto la disposizione ad accoglierlo, il cinema, in quanto possibilità, aleatorietà fibrillante nell’aria.

ECCO ALLORA piani-sequenza di macchina a spalla, frammezzati a tratti da qualcosa come dei jump-cut, microbici jump-cut che rilanciano lo spunto della ripresa, sottolineano la ripresa del movimento, delle immagini in movimento, dopo lo stacco, scandendo la ruvidità, l’immediatezza della messa in scena. È una forma evasiva quella di Taxi monamour (così come era già in Giulia, il film precedente di De Caro), che piuttosto che dare risposte, incentiva la domanda, la rivolge alla realtà ottusa, catafratta di luce; o vi risponde nel senso dello sfaglio, dello slittamento del fuoco, della focale, vegetando nel mezzo – tra il puntiglio della domanda da parte di chi guarda e si aspetta forme date, narrate, participi passati, e l’approssimazione della risposta di chi non può che filmare il transito, il participio presente –, in un territorio di non-detto, un differenziale di materia che brulica, bisbiglia, biascica cose balbe. Che è quello che fa anche Anna: non risponde mai alle domande che gli altri le pongono o non risponde se non divagando, svicolando per una reticenza connaturale al suo essere franta, provata; usando argomenti che non c’entrano – o c’entrano poco – con la domanda, rappresentandone piuttosto l’evasione.

SI CAPISCE allora la centralità di Rosa Palasciano in questo meccanismo ad alta allusività: un centro, un cardine in carne e ossa, ossesso e corpo fibroso, fibrillante, a partire dal quale il film si scentra, diviene film in fuga in cui tutto sfugge. Fuga da cosa? Cosa sfugge? Fuga dal dolore, evidentemente, anzi allusivamente, praticando la reticenza, la vasta, dilatata reticenza. Rosa Palasciano, attrice straordinaria (affiancata da una splendida Yeva Sai, silfide, sonora, sinuosa), in eco di quella che fu Giulia, e definendo così una sorta di prototipo del personaggio scentrato, sfuggente, dona purezza ad Anna, anche con la sua carnalità chiara e occhiuta, quella purezza disarmata che viene solo dal dolore («solo il dolore è vero» scrive Campana) e che viene dalla malattia (c’è un libro bellissimo di Virginia Woolf, Sulla malattia, che già andava in questa direzione). Anna-Rosa ha appena perso di vista Nadia-Yeva, mentre dal finestrino in corsa le cose fuggono: non le resta che l’eco di un addio e l’abisso, ora, l’affaccio su un vuoto spaventoso, sbranante, assoluto. È il senso famelico della mancanza, il senso del mancarsi: o siamo noi che manchiamo al senso, al mondo; noi che manchiamo di senso.

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