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Tasselli di un’autobiografia fittizia, ma non troppo

Tasselli di un’autobiografia fittizia, ma non troppo

Narrativa americana Tra non detti e momenti mancati, i racconti di Lucia Berlin fissano la sorpresa di fronte al quotidiano e ne colgono l’imprevedibilità: «Sera in paradiso», Bollati Boringhieri

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 28 ottobre 2018

Nel 2015, la pubblicazione, negli Stati Uniti, della raccolta di racconti A Manual for Cleaning Women di Lucia Berlin dette luogo a un autentico caso letterario: un’autrice morta da più di un decennio e pressoché ignorata in vita acquisiva improvvisamente notevole popolarità, suscitando al tempo stesso l’entusiasmo della critica più raffinata. L’anno dopo, la traduzione italiana, con il titolo La donna che scriveva racconti, fu accolta nel nostro paese con analogo interesse. Colpiva il modo in cui Berlin rappresentava se stessa, il suo percorso di formazione e deformazione, le sue dipendenze e la sua solitudine, con linguaggio nitido e senza riserbo, «confondendo la finzione con la realtà, ma senza mai dire bugie».

La sua empatia, tutt’altro che sdolcinata, gratificava ogni sorta di perdente e ad essa si aggiungeva una inconsueta capacità di sorridere di fronte alle miserie quotidiane. Stupiva, di Lucia Berlin, il suo nascondersi e rivelarsi al tempo stesso attraverso un continuo alternarsi di nomi e pronomi personali, senza tuttavia mai identificarsi completamente con i tanti io delle storie narrate in prima persona. Sorprendente, poi, la sua capacità di attingere ripetutamente al proprio vissuto, senza mai divenire autoreferenziale, ma giocando piuttosto con la ripresa di personaggi, luoghi e situazioni prelevati dalla propria biografia e solo minimamente modificati da un racconto all’altro.

Irruzioni dell’inatteso
Chi ha amato la raccolta di tre anni fa, nei racconti di Lucia Berlin che Bollati Boringhieri ha messo insieme sotto il titolo Sera in paradiso, (in uscita mercoledì, traduzione di Manuela Faimali, pp. 280, euro 18,00) ritroverà gli stessi stilemi e i medesimi riferimenti alla turbolenta vita dell’autrice (riassunta in una pedissequa nota finale del curatore americano). A enfatizzare lo stretto rapporto tra finzione e biografia, queste storie seguono una sorta di ordine cronologico narrativo, quasi per costituire un’autobiografia fittizia ma non troppo della scrittrice, che si nasconde, ancora una volta, dietro ognuna delle sue protagoniste: Lucha, Lisa, Laura, Linda, Maya, Maggie sono altrettante maschere di Lucia. Prima bambina di strada in Texas; poi, ricca adolescente cresciuta troppo in fretta, in Cile; poi studentessa confrontata con scomodi segreti di famiglia; e, ancora, giovane bohemienne al Greenwich Village, moglie di un pittore, poi di un musicista a New York, poi di un eroinomane in Messico; madre single di quattro figli, alcolizzata e impegnata in ogni sorta di mestieri in California; infine, nelle ultime storie, insegnante in pensione e matura viaggiatrice.

La dimensione metanarrativa presente in alcuni racconti della precedente raccolta è scomparsa, così come molto sfumata è quell‘ironia che attenuava la cupezza delle vicende più crude. L’umorismo nero che rendeva unici i racconti in cui Berlin si rifaceva alle proprie esperienze più umili e umilianti, qui si ritrova soltanto nelle storie in cui l’autrice mette in mostra il proprio alcolismo (soprattutto in «Mogli», dove le due ex-consorti di un uomo che sta per risposarsi con una ragazza di parecchi decenni più giovane si ritrovano per commentare l’evento bevendo rum fino a stordirsi) o laddove il quotidiano è colto attraverso lo sguardo di un personaggio in posizione subalterna (la domestica di «Il guardiano di nostro fratello» o l’inserviente di «Figlie»).

È ancora presente, invece, il senso di costante sorpresa di fronte al quotidiano, l’idea che sia l’inatteso, piuttosto che non lo straordinario, a dare all’esistenza un significato, non necessariamente positivo, ma comunque in grado di riscattare la vita di ogni giorno dalla sua prevedibilità. Esemplare, in questo senso, il racconto «Il tempo della fioritura dei ciliegi», in cui l’insoddisfazione di una giovanissima madre, sposata a un uomo deluso nelle proprie aspettative e relegata a una vita domestica per nulla gratificante, è scandita dal susseguirsi degli stessi gesti e degli stessi incontri, alla stessa ora, giorno dopo giorno.
L’incomunicabilità tra i due coniugi si mostra irreversibile quando il marito, dopo avere ascoltato distrattamente il racconto dei minimi cambiamenti introdotti dalla moglie nella sua routine, in risposta al suo racconto esageratamente scherzoso di un incidente, non trova di meglio che correggerla sull’uso scorretto di una innocua parola: «Tornando a casa ho ammazzato il portalettere». “Postino” disse David togliendosi la cravatta».

Proprio attorno alle parole non dette, ai momenti in cui si sa di dover parlare ma si resta in silenzio, quelli che Berlin chiama «momenti mancati», ruotano spesso i racconti di questa raccolta (con la vistosa eccezione di «La barca de la Ilusión», dove, rivisitando i giorni realmente vissuti in un villaggio sperduto sulla costa messicana nel tentativo di tenere il terzo marito lontano dalle droghe, la scrittrice fa compiere alla sua protagonista un gesto sorprendente nei confronti di uno spacciatore riuscito a rintracciare il suo facoltoso cliente).
Parafrasando una dei suoi personaggi, si direbbe che Lucia Berlin cerchi di rappresentare «il contrario del déjà vu» ovvero, quelle situazioni particolari, quei dettagli insignificanti, quelle parole smozzicate che lasciano intuire quale futuro attenda chi ne è protagonista. Così, non è difficile presagire un’esistenza irrequieta per la quattordicenne sedotta da un attempato miliardario in «Andado. Romanzo gotico», e neppure stupirsi di ritrovarla, sebbene con un altro nome, a vivere in una «Casa di adobe con il tetto di lamiera», nella contea di Alameda, senza acqua corrente né luce elettrica, con due bambini da accudire, un marito sempre assente e una serie di sfaccendati che le ronzano attorno.

Finzione nella finzione
Qui, come più avanti nei racconti ambientati a Corrales, Puerto Vallarte o sulla costa messicana, si enfatizza tutta l’ambiguità del termine «paradiso», che compare nel titolo della raccolta. Paradisiache per chi le vede dipinte su tela o in fotografia, queste località si presentano piene di insidie e scomodità per chi scelga di fissarvi la propria dimora, pur offrendo una possibilità di rinascita o una via di fuga a chi è riuscito a trasformare in un inferno privato la vita nel contesto urbano. Così, nel racconto che dà il titolo alla raccolta, a scalfire l’atmosfera edenica, entra in scena l’intera troupe del film La notte dell’iguana: Liz Taylor, Richard Burton, Ava Gardner, Sue Lyon e il regista John Huston. Il cinema, finzione per antonomasia, entra nella storia inventata da Lucia; ma, non basta: tutti gli attori che compaiono nella vicenda sono reali star di Hollywood e lo sfondo su cui si muovono è quello della cittadina messicana in cui realmente Berlin viveva al tempo delle riprese cinematografiche con il terzo marito.
La voce della Lucia Berlin che abbiamo imparato ad amare in La donna che scriveva racconti è riconoscibile soprattutto nelle storie di ambientazione metropolitana, come «Noel 1974» o «Lead Street, Albuquerque»; ma una traduzione purtroppo incolore ne attenua la freschezza e l’originalità.

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