Tasse, sulle spalle di chi pesa il macigno
La globalizzazione sta producendo due effetti opposti: le disuguaglianze tra paesi tendono a diminuire perché i tassi di crescita dei paesi prima poveri ed adesso emergenti sono molto più elevati […]
La globalizzazione sta producendo due effetti opposti: le disuguaglianze tra paesi tendono a diminuire perché i tassi di crescita dei paesi prima poveri ed adesso emergenti sono molto più elevati […]
La globalizzazione sta producendo due effetti opposti: le disuguaglianze tra paesi tendono a diminuire perché i tassi di crescita dei paesi prima poveri ed adesso emergenti sono molto più elevati di quelli dei paesi più sviluppati; nello stesso tempo, le disuguaglianze all’interno dei singoli paesi tendono ad aumentare, sia in quelli poveri ed emergenti che in quelli sviluppati. Che le disuguaglianze crescano negli emergenti può considerarsi “fisiologico” perché essi stanno ricalcando i modelli delle società più avanzate. E in qualche misura “tollerabile” perché quelle società crescono a ritmi elevati e di conseguenza anche le fasce più deboli delle loro popolazioni finiscono per avere dosi, anche se minime, dei benefici della crescita (trickle down).
Ma lo stesso non si può certo dire per l’aumento delle disuguaglianze all’interno dei paesi sviluppati. Questo sostanzialmente per due motivi: il primo è che queste economie sono sostanzialmente ferme e di conseguenza se le disuguaglianze aumentano ciò significa che i più deboli vanno indietro e che fasce intermedie di popolazione precipitano in basso nella scala sociale; il secondo è che se in una società arretrata le disuguaglianze crescenti possono apparire fisiologiche e tollerabili, nelle società avanzate esse non sono né fisiologiche, né tollerabili.
Non sono fisiologiche perché l’indebolimento degli strati medio-bassi frena i consumi, toglie carburante alla crescita, avvita quelle economie in spirali irreversibili di austerità – crisi – austerità. Non sono tollerabili perché in società con livelli medi di reddito procapite così elevati, povertà ed arretramento di strati sociali sono inaccettabili moralmente e, precludendo un futuro a masse crescenti di giovani, producono un clima di sfiducia, una degenerazione delle relazioni sociali tra le persone, un arretramento, quindi non solo economico, ma anche morale e civile. Possibile pensare ed accettare che questo possa accadere in società con livelli di ricchezza e di opulenza che toccano vertici scandalosi?
Evito qui di formulare una domanda che richiederebbe un altro articolo (perché allora non scoppia la ribellione sociale?), ma non possiamo sottrarci ad un’altra domanda: come e perché è potuto accadere che in paesi fortemente sviluppati siano cresciute le disuguaglianze sia negli anni di crescita economica che in questi ultimi anni di crisi e di sostanziale stagnazione? La risposta alla domanda può essere trovata analizzando le politiche seguite in materia di entrate fiscali.
Semplificando e sintetizzando al massimo si può dire che mentre in materia di spesa pubblica si sono ridimensionati servizi e spese che andavano a beneficio delle fasce deboli della popolazione, in materia di entrate il prelievo fiscale si è spostato dai redditi più alti verso quelli medio bassi al punto che il rapporto tra aliquote sui redditi minimi ed aliquote sui redditi massimi è passato da 1 a 7 ad 1 a 2. Essenziali alcuni dati a supporto di questa affermazione: nel 1980 l’aliquota sulla fascia di reddito più bassa era del 10% mentre quella sulla fascia più alta era del 72%; negli anni 90 la prima è rimasta al 10%, la seconda è scesa al 51%; oggi l’aliquota sulla fascia di reddito più bassa è salita fino al 23%, quella sulla fascia più alta è scesa fino al 41%.
La progressività del prelievo fiscale è stata, quindi, fortemente ridimensionata e questo è accaduto proprio nell’imposizione diretta che rappresenta il principale strumento per correlare le imposte ai redditi.
La conseguenza di queste politiche è stata che dal 1990 al 2012 le imposte dirette sono aumentate, in termini nominali, del 145%, mentre quelle indirette sono aumentate addirittura del 221%. Così il peso delle imposte dirette sul totale delle entrate è diminuito dal 33,3 % al 31,7% mentre quello delle imposte indirette e dei contributi sociali è aumentato dal 55,2% al 59,7%.
Poiché come è noto i contributi gravano sul lavoro – e su quello dipendente in primo luogo – e le imposte indirette gravano teoricamente su tutti, ma praticamente di più sui redditi più bassi perché questi destinano ai consumi la maggior parte del loro reddito, appare evidente che le politiche delle entrate seguite sono state un potente fattore di redistribuzione dei redditi a favore dei più ricchi ed a danno dei più poveri.
Se le cose stanno così le scelte possibili sono due: aumentare le entrate fiscali complessive facendole pagare agli evasori ed ai più ricchi e con le maggiori entrate rifinanziare la spesa pubblica per prestazioni e servizi rivolti ai meno abbienti ed ai ceti medi impoveriti; oppure, senza aumentare il prelievo complessivo, far pagare gli evasori ed aumentare gradualmente le aliquote più alte diminuendo quelle sui redditi medio bassi in modo da innalzare il livello di vita e dei consumi di questi strati sociali.
La prima strada appare oggi, per i rapporti di forza e per la libertà di movimento dei capitali, irrealistica o quantomeno difficile. Non resta, quindi, che la seconda. Ma essa va perseguita con intelligenza. Senza, quindi, ripetere slogan del patrimonio infantilistico della sinistra che producono più danni che risultati, si potrebbe seguire una strada più graduale, ma forse più efficace creando occasioni e/o cogliendo le occasioni che si presentano per rilanciare l’idea della progressività accantonata nella ritirata strategica della sinistra di fronte all’offensiva liberista.
Essa potrebbe essere in parte ripresa per le imposte dirette (perché nessuno nel centro sinistra propone una rimodulazione in alto anche se modesta delle aliquote?) perché in molti paesi europei le aliquote massime sono più elevate di quelle italiane. Ma soprattutto l’idea della progressività potrebbe e dovrebbe essere ripresa e rilanciata a proposito di tassazione delle grandi ricchezze patrimoniali sia immobiliari che finanziarie. In questa direzione le possibilità di creare consensi di massa consistenti ci sarebbero se solo si evitasse di restare imprigionati nell’agenda dettata dai portatori dei grandi interessi.
Ed invece il dibattito politico italiano è tutto incentrato nei confini striminziti della prima e della seconda casa e tutti sono prigionieri di una mistificazione come se tutti i proprietari di prima casa fossero uguali e la vera discriminante scattasse solo quando oltre alla prima se ne possiede un’altra. Che possa trattarsi di una casa modesta la prima e di una casupola di campagna ereditata e tenuta per affetto la seconda sembra non passare per la testa di nessuno.
Si prescinde così dal valore del patrimonio ed ancora una volta si ignora il principio della progressività mentre sarebbe logico prevedere che l’imposta scattasse oltre un certo livello e che le aliquote fossero crescenti al crescere del valore dei patrimoni.
Insomma perché non dare vita ad un movimento sociale e politico per la progressività dell’imposizione fiscale? L’art. 53 della Costituzione afferma che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e che «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». In tempi di difesa della Costituzione sarebbe bene farla rivivere spostando l’asse dalla difesa alla realizzazione/applicazione e questo sarebbe proprio un caso da manuale. Può darsi che nel nuovo scenario politico che si delinea i tentativi di stravolgere la Costituzione siano destinati a fallire. Allora tutti a casa e contenti? No.
Penso che a partire dalla progressività riprendere la Costituzione e sviluppare una campagna a tappeto scorrendo i singoli articoli e di volta in volta sviluppando iniziative specifiche su di esse (lavoro, reddito, diritti…) sia la strada giusta ed obbligata.
Il panorama politico italiano è entrato in una fase di transizione verso un nuovo assetto. Possiamo una volta tanto essere noi, sinistra, a dettare l’agenda del prossimo futuro e magari a gettare i semi della sinistra del futuro?
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