Presentato a Venezia 76 nella sezione Venezia Classici – Documentari, Andrej Tarkovskij – A Cinema Preyer è arrivato anche nelle sale italiane grazie all’ormai consueto, eroico sforzo di Lab80. Andrej A. Tarkovskij fa una cosa complessa in modo semplice, costruendo un ritratto critico del padre cineasta oltre gli stereotipi e le viete categorie, operando al contrario sulla carne viva delle immagini, sulle loro radici profonde, sulle suggestioni emotive centrifughe e le reti logiche centripete che ne scuotono l’apparizione, attraverso il montaggio come procedimento principale e orizzonte concettuale del discorso del film.

Il primo reticolo combinatorio è il collage di dichiarazioni di Tarkovskij enunciate dalla sua propria voce, contrappuntato dalle scolpite parole poetiche del padre Arsenij, recitate dalla stessa voce del loro autore. Al sonoro si sovrappone e dà carne l’immagine: in un denso percorso che mette in rima e in connessione fotografie, documenti scritti, disegni, frammenti dei film e riprese nuove negli stessi luoghi dei set originari, le parole sembrano diventare lo sfondo necessario perché le visioni del cineasta si riordinino secondo una prospettiva organica, dentro una cornice che ne scopre chiaramente il senso. Intenso, concreto eppure al contempo quasi traslucido, il film assume il punto di vista astratto del Tarkovskij ricostruito dal figlio dentro il suo documentario, mostrando quasi da un apocalittico oltremondo – senza mai abbandonare una pulsante concretezza – il corpo biofilmografico del cineasta russo come un panorama vasto e frastagliato, un ampio palinsesto sulla superficie discontinua del quale – attraverso le eco iconografiche, emotive e spirituali – si rivelano i riflessi e le connessioni che attraversano in un’unica fuga la vita, il pensiero, le opere di uno dei più grandi artisti visivi del nostro tempo.

Il film nasce da un progetto di molti anni fa, che è cambiato nel tempo.
Ho iniziato a lavorare al documentario nel 2003, era un progetto diverso, basato su Martirologio. Poi sono finiti i soldi, ci son stati problemi di produzione e quindi per alcuni anni mi sono fermato. Questo mi ha dato l’opportunità di lavorare sugli archivi sonori che abbiamo qui a Firenze e in Russia,sbobinado tra l’altro le molte interviste a mio padre. Con il passare del tempo ho verificato quanti lavori erano già stati messi insieme su Tarkovskij: film, libri, e tanto altro ancora. Tutto questo mi ha fatto pensare che un altro film su di lui forse non avrebbe avuto più senso o comunque non sarebbe servito a dire quello che interessava a me. Mi sembrava che dietro la mole di questo materiale già esistente si fosse perso Andrej Tarkovskij, la sua figura, quello che era, quello che pensava, tutto ciò che mi stava a cuore raccontare. Ho deciso quindi di cambiare completamente il progetto del mio documentario, basandolo interamente sulle interviste e sulle altre registrazioni sonore dei suoi discorsi in pubblico, su Tarkovskij che racconta se stesso, la sua vita, i suoi film, la sua visione dell’arte, della fede. Poi ci sono tornato sopra aggiungendo le immagini.
Ci sono anche alcune poesie del padre, Arsneij Tarkovskij, lette da lui, registrate per essere inserite nel film Lo specchio, ma che poi non sono mai state usate. Anche quelle le ho trovate conservate negli archivi. Queste poesie mostrano molto bene il legame artistico, culturale e spirituale tra Arsenij e Andreij, tra il padre e il figlio, legame che secondo me è fondamentale: senza Arsenij non ci sarebbe stato Andreij, artisticamente parlando. Dopo aver scelto i materiali sonori, siamo passati alle riprese. Avevamo già girato in Russia nel 2003, e abbiamo allora completato con nuove riprese, l’anno scorso, in Italia – sui luoghi di Nostalghia -, in Svezia – sui luoghi di Sacrificio – ancora in Russia, sui luoghi del film Lo specchio e soprattutto dentro e intorno la sua casa di campagna. Una casa chi vediamo in Nostalghia, una casa che amava e che era molto importante per lui.

Nella sua esplorazione degli archivi come ha deciso di procedere? Quali elementi ha scelto per orientare la sua ricerca così lunga e laboriosa?
Il mio desiderio, il mio compito era quello di mostrare Tarkovskij così com’era, come me lo ricordo, mio padre: una persona che aveva idee ben chiare sull’arte del cinema, sulla vita, sulla fede. Sono aspetti che spesso vengono un po’ trascurati dagli studiosi e dai critici del cinema: è difficile definire Tarkovskij solo in quanto regista. Non è un regista, non è solo un regista. Potremmo dire che è anche un filosofo, lui però era completamente contrario a questa definizione. Era un artista dietro il quale c’era un profondo retroterra filosofico e culturale legato alla Russia tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, il secolo d’argento, legato cioè a tutto quello che ha assorbito dagli insegnamenti di suo padre, un’eredità alla quale era molto legato. Ripeteva spesso quanto siano importanti le radici nella cultura e nell’arte. Per lui il cinema, l’arte in generale, era prima di tutto un mezzo di conoscenza su di sé: mio padre cercava, cercava una sintesi, cercava l’Assoluto, e il cinema è stato un percorso conoscitivo anche per lui. Nel mio film non ci son cose del tutto inedite, però forse selezionando, raccogliendo e collegando le sue dichiarazioni viene fuori con molta forza la sua convinzione, una profonda fede, ortodossa, cristiana, che era chiaramente presente anche se latente. Certo non così esplicita come la sentiamo espressa da lui nel film.

Il titolo – «cinema preyer» – è netto e forse inatteso anche per il significato elementare, poco poetico che nel contemporaneo si dà spesso all’idea di preghiera. Colpisce ancora di più quando si scopre il ragionamento che Andrej Tarkovskij fa su questo suo modo d’intendere il cinema, l’idea di relazione che sta al fondo di questa prospettiva. Mi chiedevo in questo senso se e in che misura questo film fosse anche una preghiera secondo questa specifica accezione di relazione intima, profonda spirituale da parte sua nei confronti di suo padre.
Sono rimasto piuttosto sorpreso anche io quando ho sentito questo concetto esplicitato dalla sua voce. Quest’idea dell’arte come servizio riassume perfettamente quello che ha sempre pensato e fatto. Ne ha parlato in due diverse occasioni, due diverse interviste. L’ultima risale a pochi mesi prima della morte. Il film segue una linea cronologica, quindi quando parla della morte e dice di non avere paura, di avere questa grande fede, lo dice non così, genericamente, ma consapevole di essere già gravemente ammalato, nell’ultimo anno di vita, lo dice grazie alla forza della sua ferrea convinzione.
Sì l’arte come preghiera è un concetto molto forte ma credo sia fondamentale per un artista. Ormai abbiamo dimenticato perché facciamo arte. Per Tarkovskij l’artista non era solo uno dotato di talento, era piuttosto uno schiavo, schiavo del proprio talento che doveva servire: il talento viene dato come dono, un dono che viene dall’alto, che si deve rispettare e servire, anche facendo dei grossi sacrifici. La sua vita è stata tutta un sacrificio per l’arte. L’arte è oggi il modo di esprimere il proprio ego. Tarkovskij era lontano da quest’idea. Per lui l’arte e la vita erano inseparabili. Viveva il suo cinema, lo viveva quotidianamente, era qualcosa di vivo, di reale.

Parlando della forma del film, della sua struttura – fondata sui due cardini di selezione e combinazione – sembra da una parte proceda in un’esplorazione delle radici dell’arte del cinema di suo padre e dall’altra – interessante, molto discreto ma molto profondo – in una sorta d’indagine, di ricognizione sulle tracce extracorporee – nel senso di «fuori dal corpo dei film» – che sono fondate nel mondo dai film e che restano e sono destinate a seguitare. E che sembrano essere inserite in questo sistema di combinazioni, di montaggio di materiali non solo come effetti del passato ma proprio come corsi di vita che seguitano nel futuro. Come ha congegnato, come ha lavorato alla costruzione anche ideale di questa struttura, di questa forma?

Una volta completata la parte sonora – il racconto – è stato più semplice, era pronto lo scheletro e l’ho riempito con le immagini che facevano parte di quel racconto. Nel film Tarkovskij dice che un artista deve sempre toccare la terra con un mano e con l’altra puntare verso il cielo. Tenere dunque sempre presente la realtà. Tutti i suoi film sono basati sulle cose reali, anche quando si tratta di sogni, sono i suoi veri sogni, quelli che lui ha veramente sognato; le immagini che ha messo nei suoi film sono sempre relative a qualcosa di reale che lo circondava e che lui poi elaborava creando immagini uniche e irripetibili. Elementi che facevano parte del suo quotidiano, della sua vita. Di qui la strada che ho seguito nella raccolta, nella selezione e nell’intreccio di tutti questi diversi materiali. Anche ripercorrendo i luoghi delle riprese di Nostalghia, di Lo Specchio, di Solaris, questi luoghi conservano una specie di magia, hanno un’energia particolare; la sua grande capacità di vedere, la sua grande visione poetica non era basata sulla fantasia, era proprio capacità di usare gli occhi per vedere. Questa era un’altra cosa che volevo far capire con le immagini del film.

Il film ha una forma ufficialmente saggistica e tuttavia sembra articolarsi e animarsi secondo meccanismi più vicini alla poesia. Sono stato molto colpito dal modo in cui attraverso il montaggio si mettono in rima, si fanno risuonare cose apparentemente diverse e lontane tra loro. Oltre le fotografie naturalmente, soprattutto i documenti che non sono forniti di didascalie e che per questo compaiono come oggetti bruti, immagini pure.
Non era voluto, ma l’impostazione poetica è fondamentale anche per me che sono suo figlio e in qualche modo ho ereditato questo suo modo di rapportarsi con la realtà, con le cose. C’è una scaletta, ogni capitolo è un po’ legato a un film; per lui ogni film segnava una fase importante della vita. Quindi finito un periodo, ne cominciava subito un altro con il lavoro a un altro film.
Non credo ci sia bisogno delle didascalie perché quel che vediamo sempre lungo il mio film è il suo laboratorio interiore, sentiamo la sua voce e quella di suo padre, vediamo le immagini dei luoghi dove sono state scritte queste poesie. Credo che possiamo capire le cose senza vederle scritte a chiare lettere. Sono contento che non le abbia dato fastidio questa mancanza, perché spesso dai film documentari ci si aspetta una certa precisione fornita attraverso apparati ingombranti che appesantiscono poi il racconto. Qui invece io volevo far vedere il suo mondo interiore, il laboratorio dell’artista, entrare dentro quello che pensava, quello che vedeva, quindi non era importante il luogo preciso, il momento preciso. Era più importante riprodurre l’impressione, l’esperienza di essere seduti accanto a Tarkovskij e sentirlo parlare, così com’era sempre, quando faceva discorsi a tavola, con gli amici, alle conferenze: era sempre vitalissimo, molto comunicativo. Un ricordo a me caro e a tutti noi, familiari e amici.

Una cosa emotivamente forte e che mi sembra abbia a che fare con il modo in cui il film cerca di costruire una forma simile a quella che ebbero la vita e la ricerca di Andreij Tarkovskij, è l’incipit dedicato all’infanzia legata a poche immagini precise, e l’epilogo che torna a quelle stesse immagini. Poteva essere facilmente un film concluso nel suo sviluppo cronologico, invece anche in questo il film sembra riecheggiare nella forma alcuni elementi fondanti del pensiero di Tarkovskij, in particolare legati al concetto di Tempo.

Mio padre dice all’inizio che l’infanzia è una delle cose più importanti, un tempo che influenza l’artista e tutti noi per il resto della vita. Riusciva a recuperare memorie molto remote, fino ai primi mesi di vita.
Ritornare, chiudere con un ritorno al principio, dà l’idea dell’eternità. Non volevo finire con la morte. Che non esiste, e dunque è davvero un cerchio, una continua rinascita. Infatti l’epilogo del film si chiama L’eterno ritorno che è un concetto nietzschiano citato in Sacrificio: l’idea che se non c’è la morte la vita si ripete all’infinito.
L’eterno ritorno è tra l’altro il titolo che mio padre voleva dare a Sacrificio in prima battuta, il primo titolo di lavorazione, quindi un concetto che aveva in mente, anche per questo l’ho voluto ricordare. Sì, secondo me questo tempo non lineare, aperto dà un senso di liberazione, di leggerezza, quella stessa leggerezza dell’idea di morte che mio padre aveva. Credeva infatti di essere immortale.

Nel film non si fa menzione dei maestri se non di quelli d’elezione, quelli che Andrej Tarkovskij ha eletto come tali: Tolstoj, Leonardo e tra i cineasti solo Bresson. Ci sono invece esplicitamente citati i problemi rispetto al sistema produttivo, all’establishment e alle gerarchie del regime sovietico. Ripercorre la lunga collezione di esperienze che lo hanno educato indirettamente, ma nel film non c’è traccia di quello che direttamente lo ha educato come regista, la scuola di Mosca in particolare. Neppure c’è alcun riferimento al suo posto all’interno del cinema sovietico, del passato e del suo presente.

Alla scuola di cinema di Mosca è stato allievo di Mikhail Romm che amava, però devo dire che – essendo assai critico verso se stesso – era molto critico certo anche verso gli altri registi. Per lui di grandi maestri ce n’erano quattro o cinque in tutto il mondo: parlava sempre di Bresson, di Bergman di Mizoguchi, in Russia di due o tre nomi come German, Paradzanov, Iosseliani, pochi altri. Poi parlava di Dovzenko come un maestro indiretto che lo aveva influenzato, soprattutto rispetto a La terra. Gli era assai più caro di Ejzenstejn per esempio, che lui detestava.
Quelli che nominava spesso come suoi maestri erano forse più mastri spirituali, non tanto quelli che gli servivano da riferimento nello specifico del suo lavoro di regista. Sono rimasto anche io sorpreso che per esempio non abbia detto niente di Dostoevskij anche se tutta la vita ha cercato di fare un film su Dostoevskij e ha sempre scritto su Dostoevskij. C’è in fondo in ognuno dei suoi film, evocato attraverso una vastissima serie di citazioni, in tutti i film che ha girato. Nell’intervista che ho inserito nel film, registrata pochi mesi prima della morte, forse lui parla più di riferimenti spirituali, di uomini che avevano una grande fede. Dostoevskij lo era di sicuro ma aveva anche un grande dubbio, Tolstoj invece no.
Non è stata dunque una mia scelta deliberata, era un suo atteggiamento, una sua idea. La scuola di cinema gli aveva dato molto ovviamente, nei suoi anni era una scuola importante con maestri formidabili, ma dal punto di vista spirituale i suoi maestri erano altri.
Tornando al discorso dell’eredità e del «secolo d’argento» russo, penso alla filosofia russa – a Florenksij, a Berdyaev, a Solovev, queste sono un po’ le radici della sua arte, del suo pensiero, cose che lui ha studiato e che ha assorbito attraverso gli insegnamenti del padre Arsenij – secondo me è in questa direzione che si devono trovare le radici della sua cultura e della sua visione spirituale.