In occasione dalla XXXII Biennale di Venezia, tenutasi nel 1964, la Pop Art entra ufficialmente sulla scena europea. Viene premiata l’opera di Robert Rauschenberg con le sue trame pittoriche informali combinate con oggetti prelevati dal contesto quotidiano. Dopo Rauschenberg, invaderà il vecchio continente un’arte pop più propria, che comincerà a erodere, insieme all’aura, anche fette di mercato che le varie esperienze astratte e informali si erano guadagnate dal secondo dopoguerra in poi.
A questa storica Biennale, tutta concentrata sulla nuova arte americana, viene invitato per la prima volta il trentasettenne bellunese Tancredi Parmeggiani, precocemente maturato a Venezia, inizialmente sotto la protezione di Peggy Guggenheim, nel segno dell’astrattismo europeo e americano, e poi, allontanatosi dalla città lagunare, sulla via di una nuova ridefinizione pittorica che anche in Rauschenberg trova un referente prossimo.
Ma questa sua partecipazione alla Biennale accade dopo due ricoveri psichiatrici. Tancredi è «schiantato», come afferma il critico Berto Morucchio, che per anni ne segue la vicenda artistica. Di lì a breve il suo corpo verrà ritrovato nel Tevere, all’altezza del Ponte Sisto, a poca distanza da Campo dei Fiori, dove aveva preso alloggio dopo un inquieto soggiorno in casa del fratello.
L’articolo di Buzzati
«Nasce il mito Tancredi», come titola nel 1967 il Corriere della Sera, in occasione di una grande antologica dedicatagli al Palazzo Vendramin-Calergi. L’articolo, a firma del conterraneo e caustico Dino Buzzati, descrive la mostra come «circonfusa da un patetico alone di mito». Ma davanti alle 142 opere di Tancredi, pur non individuando in lui una precisa cifra di stile, Buzzati non può che riconoscerlo come «geniale interprete e ricreatore di musiche via via percepite lungo il precipitoso cammino».
Di questa breve ma intensa parabola vitale e artistica danno conto la mostra (in corso fino al 13 marzo 2017) presso la Collezione Peggy Guggenheim, dal titolo “La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba. Tancredi”. Una retrospettiva, curata da Luca Massimo Barbero, e il catalogo (edito da Marsilio, uro 35,00) che, oltre al contributo del curatore, documenta, con un ampio apparato iconografico e attraverso gli interventi di Luca Nicoletti, Elena Forin e Gražina Subelyte, non solo modelli e contesti della formazione dell’artista, ma anche le strategie promozionali che la ricca mecenate americana mise in campo per affermare l’opera di Tancredi presso musei e collezionisti d’oltreoceano.
I lavori giovanili di Tancredi presenti in mostra risalgono al periodo in cui frequenta la scuola libera del nudo di Armando Pizzinato in Accademia, dove la raffinata grazia lineare armonica dei disegni a matita e china (splendidi i ritratti di bambini e del pittore Romano Conversano, suo primo mentore) cede presto il passo alle prime trasformazioni neo-cubiste, decostruttive e grottesche, degli autoritrattiti. Già da queste battute iniziali si delinea in chiave intima il carattere di un indubbio talento onnivoro, pronto ad assorbire dall’esterno gli stimoli più interessanti, per poi sintetizzarli in un linguaggio del tutto personale.
Non è più il tempo di rappresentazioni figurative, ma di Io e Natura fusi in una dimensione percettiva psichica. Il nuovo si impone attraverso campiture nebulose, segni automatici, sgocciolamenti, gestualità. Le tecniche miste su carta dei primi anni cinquanta accompagnano questo passaggio all’astratto. Un qualcosa che avvicina Tancredi all’opera di Jackson Pollock. Peggy Guggenheim, che, incoraggiata da Mondrian, legò con un contratto il pittore americano al tempo della galleria newyorkese Art Of This Century, riconosce, ora, nel talento del giovane artista veneziano un buon investimento su cui puntare, offrendogli, unico caso in Italia, un contratto e uno studio nella sua residenza-museo al Palazzo Venier dei Leoni (attuale sede della Collezione).
La frenetica produttività di Tancredi, in questi anni, lo porta a investigare nuove grammatiche segniche, fatte di movimenti e tensioni, e a concludere interi cicli pittorici nel volgere di poco tempo. Raggiunge una sua specificità, nebulosa e molecolare, con la serie delle Primavere, realizzata con puntini policromi che si addensano e rarefanno, dando la sensazione di pulviscoli naturali. Nel 1953, in uno dei suoi rari appunti, scrive: «Ho trovato un termine relativo, allusivo di spazio: il punto, in quanto è il più piccolo spazio mentalmente considerato». E aggiunge: «Dal punto io parto attraverso grafie e colori istintivi per la conquista di nuove immagini di Natura». Il suo lirismo astratto è dunque vocato al naturale, ma verrà introdotto ugualmente negli ambiti del movimento Spazialista con mostre collettive e personali in Italia e all’estero.
Eppure questo pointillisme à la Seurat viene declinato anche in senso plastico da Tancredi (che vede in Mondrian un punto di riferimento stabile di questi anni). Realizza il quadro Aspirazione a New York, dove i puntini costruiscono grattacieli bistrati fusi in un pulviscolo rosso e abbacinanti riflessi bianchi. Il linguaggio segnico delle sue astrazioni trova in queste soluzioni, costruttive e gestuali insieme, il moltiplicatore delle sue allusioni. I punti si dilatano, si sovrappongono, creano riverberi e opalescenze. Si intrecciano a segni casuali e linee strutturali. Divengono visioni aeree della città, riflessi equorei, tasselli di luce, come mosaici.
Tancredi non metterà mai piede in America, ma le sue opere sì. Peggy Guggenheim, nel corso degli anni cinquanta, si premura di far approdare le sue opere, sotto forma di donazioni, in diversi musei, e di assicurarne la presenza anche in collezioni private. Nel 1958, nel catalogo della personale presso la Saidenberg Gallery di New York, Nicolas Calas, assecondando il gusto dei collezionisti d’oltreoceano, lo definisce «impressionista astratto», erede della tradizione vedutista veneziana dell’Ottocento.
Dubuffet a riferimento
Ma ogni definizione sta stretta a Tancredi. Si allontana dalla Guggenheim, si trasferisce a Milano, dove si lega alla Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti. Trascorre con la moglie periodi in Norvegia, riscopre la potenza di Ensor e Munch, e a Parigi si riconcilia col disegno. Dubuffet è tra i suoi riferimenti. Realizza opere che aprono a nuove prospettive. Reintroduce le figure nelle sue pitture. Crea i delicatissimi collage dei Diari paesani. Con sarcasmo rivolto al mercato dell’arte, realizza la serie dei Fiori dipinti da me e da altri al 101%, mediante innesti di fiori di stoffa sui quadri. E sconvolto dalla ferocia del secolo breve, configura il tragico ciclo Hiroshima, da cui prende spunto il titolo della retrospettiva, dove filiformi spettri e straziate figure antropomorfe si possono ricondurre, per la forza del segno, al ciclo delle Tredici Facezie di Tancredi, disegni pubblicati a Milano nel 1961 dalla Galleria Schwarz, di cui dà conto il catalogo.
Al critico Morucchio, parlando di questi lavori, dirà di essere finalmente «scoppiato», e di aver ritrovato le nuove basi della sua pittura, dove tutto il suo passato si ricollega a tutto. «Dentro c’è Rothko, Miller, Rauschenberg ed Evtuscenko, il giovane poeta russo, tutta la tradizione cinese, persiana, greca, egiziana, maomettana, italiana, francese». Argan lo definirà più tardi «un raffinato dubbioso». Per noi, oggi, i «dubbi» di Tancredi Parmeggiani sono la certezza di una grande arte.