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Tancredi, contro l’atomica un filo d’erba

Tancredi, contro l’atomica un filo d’erbaTancredi Parmeggiani nel 1955 circa, foto di Arnold Newman/Getty Images

Tancredi Parmeggiani, "Scritti e Testimonianze", Marsilio Annotazioni sulla pittura, senza alcun presupposto teorico, divengono una sorta di laboratorio intellettuale per la fiera e aperta eresia dell’artista feltrino

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 30 aprile 2017

“Un uomo è tanto più grande quanto più universo ha in sé» scriveva Tancredi, al secolo Tancredi Parmeggiani (1927-’64), contrassegnando l’invito di una sua personale del 1954. E di universo doveva averne in abbondanza il pittore feltrino, a giudicare dalle opere che ci ha lasciato, che risentono del suo caleidoscopico misurarsi con le più svariate suggestioni: dal neoplasticismo di Mondrian ai voli pindarici di Klee, dal dripping di Pollock ai motivi espressionistici e grotteschi del gruppo Cobra (in particolare Asger Jorn), dallo spazialismo di Fontana ai combine paintings di Rauschenberg. Ma sempre con una visione lirica innocente, personalissima, che sembra reinventare tali influenze come se si trattasse di intuizioni che derivano da quel suo universo creativo («Il mio vocabolario è l’universo» si legge in un altro appunto), per esserne a loro volta riassorbite, metabolizzate, ed evolversi in qualcosa di nuovo e dirompente.
Dopo la recente retrospettiva al Museo Guggenheim di Venezia, Luca Massimo Barbero cura Scritti e testimonianze (Marsilio, pp. 148, euro 20,00) che raccoglie le osservazioni di Tancredi sulla pittura, disponibili finora solo nei due lussuosi volumi Tancredi: I dipinti e gli scritti, editi da Allemandi nel 1996. Vengono così messi a disposizione a un prezzo accessibile i testi di un pittore «eretico» che seppe coniugare una versatilità creativa non comune con un rigore quasi ascetico della forma. Si tratta perlopiù di annotazioni che non hanno alcun presupposto teorico ma che divengono una sorta di laboratorio, di fucina «intellettuale» per un artista che dichiarava: «Io non so scrivere; forse riuscirò a dipingere quello che sento».
Tancredi rivendicava con fierezza l’atto di dipingere, arrivando a osteggiare l’arte concettuale, nonostante la sua estrema apertura verso ogni «novità» di stampo internazionale: «Ritengo che la pittura sia appena nata. Condanno i modi tristi di morire di molti pittori di questo secolo. Credo in un futuro fatto di equilibrio, in un artista che sia un uomo puro, capace di tutti i tipi di emozioni: un artista che sia finalmente un uomo progressista, non malato psichico, attivo, non passivo, forte, non debole».
Contro la serialità di tanti artisti contemporanei che si erano sclerotizzati nella ricerca di minime variazioni intorno allo stesso tema, il percorso di Tancredi si configura fin da subito come quello di un artista libero, che non solo si misura con le esperienze internazionali più significative ma arriva a scontrarsi con le regole del mercato dell’arte, come scrive nell’autopresentazione a una personale del 1960: «Da questa mostra in poi io stabilirò i prezzi dei miei quadri, in termini miei e a proposito di ciascun quadro». Partito da un figurativismo di stampo neocubista, il percorso di Tancredi si orienterà sempre più in direzione dell’astrattismo e della pittura informale, ma con ascendenze cromatiche che risentono di un certo primitivismo veneto. Barbero osserva quanto la pittura di Tancredi abbia «la sospensione astratta, mistica, tutta mentale e inafferrabile della luce musiva bizantina».
E non è un caso che a Venezia il nome di Tancredi abbia potuto consolidarsi sia attraverso il sodalizio con Peggy Guggenheim, che gli metterà a disposizione uno studio a Ca’ Venier dei Leoni (proposte nel volume un paio di sue testimonianze), sia mediante la frequentazione con gli artisti più importanti dell’epoca di passaggio alla Biennale. Venezia, oltre a rappresentare l’habitat naturale per la sua opera, si segnala per essere stata al centro di particolari investigazioni segniche e cromatiche, fino a divenire uno dei temi-chiave di Tancredi. L’ultima mostra che farà alla Galleria del Cavallino, prima di trasferirsi dalla città lagunare nell’aprile 1959, si intitola emblematicamente A proposito di Venezia.
Spesso gli appunti di Tancredi presuppongono un’attenzione verso tematiche sociali che sembrano prefigurare topoi che sfoceranno nel ’68, senza tuttavia essere irretiti da nessun tipo di dogmatismo ideologico. Si pensi in questo senso anche al trittico dedicato alla tragedia nucleare di Hiroshima in cui la presenza dell’uomo si riduce ad essere quella di un calco, di un’impronta. L’artista può contrapporre solo una natura disarmata di fronte alle aberrazioni tipiche dell’Età dell’ansia: «La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba».
Splendida è la tarda produzione grafica, contrassegnata dalle facezie, dallo stesso pittore definite come «scherzi fatti con un po’ di leggerezza e un tantino di amarezza». Le facezie erano disegni tra il grottesco e il surreale che Tancredi compose tra il ’59 e il ’62, tese al recupero di una figuratività allucinata e stravolta. Queste composizioni rappresentano ossessivamente il mondo dei «matti», figure nude e deformi che ostentano grosse teste itifalliche, caracollanti sulla carta come Golem che sembrano sempre sul punto di polverizzarsi. Si tratta di larve, ectoplasmi, spesso avvolti in un bozzolo intricato di geroglifici che risentono degli esiti espressionistici di Munch ed Ensor. In una lettera all’amico Olivier Herdies del 1961 il pittore osserva: «Caro Olivier, io non ho inventato proprio niente. Li ho trovati per la strada: tanti piccoli matti con dei cazzi senza palle e delle teste grosse, gonfie di decorazioni, armature e retoriche comuni. Io non ho fatto che buttarli sulla carta perché si potessero vedere e per vedere io stesso un po’ più di me stesso».

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