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Tanaya Rao Raj, mappe affettive nelle cucine

Tanaya Rao Raj, mappe affettive nelle cucineTanaya Rao Raj, Imprinted, 2019

Intervista L’artista indiana racconta la sua quarantena e i nuovi progetti

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 18 aprile 2020

In attesa di provare di nuovo un «senso di normalità», Tanaya Rao Raj (New Delhi 1995) è in quarantena con i genitori nella casa di famiglia a New Delhi. «Trascorriamo le nostre giornate rilassandoci, impegnandoci nelle faccende quotidiane, cucinando, leggendo – spiega l’artista – Ciò che mi colpisce di più è che condividiamo i nostri pasti sul tavolo da pranzo. In genere non passiamo quasi mai del tempo tutti insieme – tranne la domenica – dato che ogni giorno mio padre torna dal lavoro a tarda notte e mia madre è occupata con i suoi seminari per bambini».

Tanaya ha studiato al College of Art della Delhi University specializzandosi in pittura e nel 2019 ha conseguito il master in belle arti alla Shiv Nadar University, al momento sta lavorando a una nuova serie di lavori ispirati dall’isolamento: «utilizzo l’idea di mappatura mentale accanto alla pittura, ma approfondisco anche la mia ricerca sugli utensili di mia nonna, iniziata un paio d’anni fa».

Nel corso del 2019, insieme all’artista Vikrant, ha collaborato anche a The Garbage Project – Ecologies of the Everyday ideato e realizzato a New Delhi dall’artista e animatrice culturale Ruchika Wason Singh presso il Critical Dialogue Art Space. Un anno particolarmente intenso per lei, segnato dalla partecipazione a diverse collettive, tra cui al Kiran Nadar Museum of Art di Noida e al Serendipity Arts Festival di Goa, con il suo progetto Na Rakhna Hai, Na Phenkna Hai che in hindi vuol dire «non si può buttare né si può tenere.

Come nasce il progetto sulla memoria «Na Rakhna Hai, Na Phenkna Hai», incentrato sui vecchi utensili della nonna materna, originaria di Bangalore?
L’idea ha preso forma una volta a casa di mia nonna Bharati Rao a Munirka Vihar, nel distretto di Delhi Sud, non troppo distante da dove abito. La casa di famiglia è a Bangalore, ci abita ancora uno zio, ma i miei nonni, per via del lavoro, si trasferirono a New Delhi con mia madre e mia zia. Durante quella visita osservai per la prima volta quegli oggetti obsoleti che erano chiusi nelle credenze della cucina, la maggior parte dei quali ha viaggiato con mia nonna dal Karnataka. Sono rimasta colpita da quel mondo che appartiene al passato, mentre nonna – che è nata nel 1942 – mi raccontava il loro uso e le sue storie personali, così intrecciate a quegli oggetti.

È significativo l’uso della fotografia, sia documentaria che declinata in una chiave più concettuale: ritratti di oggetti (su alcuni sono incise le iniziali di sua nonna o di suo nonno) come il filtro per il caffè o il cesto per la frutta usato anche come porta fiori che, in un certo senso, possiedono un’anima oltre che un’identità?
Sì, credo che questi oggetti abbiano un’anima. Oltre alla loro età e al valore storico c’è quello emotivo che supera qualsiasi forma di tangibilità. Nell’intero progetto il mio tentativo è stato quello di comprendere quest’anima, concentrandomi sugli stati di uso e disuso attraverso la memoria e l’esperienza sia di mia nonna che la mia e, poi, della nostra esperienza insieme.

Il processo del «mark making» è simbolicamente collegato a quello tradizionale del «kalayi» con cui venivano rivestiti gli utensili in ottone utilizzando stagno e cloruro di ammonio?
Questo processo è stato molto intuitivo. Inizialmente ho catturato i segni con le fotografie che ho stampato su carta riciclata fatta a mano, poi sono passata al disegno attraverso cui cercavo di guardare ogni segno o ammaccatura.
Alla fine i segni svaniranno e sarà quasi impossibile trattenerli, perché la carta fatta a mano, che ho realizzato appositamente, non vede l’impiego di alcun legante, quindi è «impermanente». Il che rende anche le fotografie soggette a modifiche, proprio come il rivestimento che viene fatto sugli utensili attraverso il processo di «kalayi» che cancella i segni esistenti, dando un valore «nuovo» agli utensili così che possano essere riutilizzati in modo sicuro.

Il riuso/rinascita rappresenta una diversa fase: cucinare e servire il cibo utilizzando gli utensili di famiglia è diventata una forma di progetto partecipativo. Qual è stato il momento decisivo del passaggio dal sé all’altro?
Quel momento ha coinciso con la condivisione del pasto con i miei compagni di corso – il 19 gennaio 2019 a Noida – riattivando il dialogo e l’esperienza del mangiare insieme. La reazione dell’altro, la storia da raccontare o il commento da fare sono parti importanti del mio processo partecipativo. Il pasto stesso ha evocato conversazioni sulla propria casa, la famiglia e la cultura, dato che tutti noi vivevamo in un ostello lontano da casa.

Dal ricettario scritto a mano da sua nonna su un’agenda del 2002, ha scelto la ricetta della Polvere di Sambar, la miscela di spezie che è l’ingrediente principale del Sambar, uno dei piatti più diffuse e gustosi della cucina dell’India del Sud. Questa ricetta diventa significativa nel passaggio dalla storia orale a quella scritta?
Sì, sicuramente la ricetta della Polvere di Sambar rappresenta una pedina fondamentale nel passaggio dalla storia orale a quella scritta. È rimasta viva attraverso le generazioni e ora spero di essere in grado di preservarla e trasmetterla, a modo mio, alle generazioni future.

***

Tanaya Rao Raj (New Delhi 1995) ha studiato al College of Art della Delhi University e alla Shiv Nadar University. Tra le mostre: Serendipity Arts Festival, Goa; Art Konsult Gallery, Hauz Khas Village; Momus, Macedonian of Contemporary Art and State Museum of Contemporary Art Collections, Salonicco; Kiran Nadar Museum, Noida e Finext, Bhopal, India. Il suo progetto «Na Rakhna Hai, Na Phenkna Hai» è nel saggio di Madanmohan Rao «From Conservation to Celebration: How Serendipity Arts Festival embraces tradition as well as modernity».

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