Mercurio, il messaggero degli dei, vola veloce sull’acque per raggiungere l’isola di Ogigia. Ha l’incarico di annunciare a Calipso, la dea luminosa, la decisione di Giove: che Ulisse quanto prima prenda il mare e possa tornare finalmente ad Itaca. Sulla zattera che si è costruita Ulisse lascia Ogigia. Al momento del distacco, Calipso gli fa dono di “un lenissimo ancor vento innocente,/che mandò innanzi ad increspargli il mare”. Al timone, l’eroe scruta nel cielo le Pleiadi e Boòte, e l’orsa e Orione e mantiene sicura la rotta verso l’isola dei Feaci che, dopo diciassette giorni di navigazione, “gli sorse incontro co’ suoi monti ombrosi”, e gli appare ben netta all’orizzonte, “quasi uno scudo alle fosche onde sopra”.

Il re Alcinoo predisporrà una nave che ricondurrà l’eroe in patria. Pur consapevole del decreto di Giove che vuole raggiunga Ulisse infine la sua Itaca, Nettuno, suo implacabile nemico, lo scorge e scatena una tempesta per rendergli irto di difficoltà l’approdo. Così, scuotendo il tridente, “le nubi radunò, sconvolse l’acque,/tutte incitò di tutti i venti l’ire,/e la terra di nuvoli coverse,/coverse il mar: notte di ciel giù scese”. Ondate immense si susseguono e disconnettono i legni della fragile imbarcazione. L’antenna è divelta e la vela travolta è portata lontano dalla furia degli elementi che ha sommerso Ulisse. Egli, “nel secreto dell’alma”, preda dei marosi rimpiange di non esser morto sotto le mura di Troia combattendo, e si lamenta: “or per via così infausta ir deggio a Dite”.

Riemerge ed afferra un relitto della barca che galleggia tra la bianca spuma. In quella bianca spuma sta la sua salvezza, come narra Omero. Dalla cresta candida del flutto col movimento rapido del colpo d’ala d’una folaga “la bella il vide dal tallon di perla/figlia di Cadmo, Ino chiamata al tempo/che vivea tra i mortali: or nel mar gode/divini onori e Leucotéa si noma”. Un mito racconta che Ino, per sfuggire alla follia di Atamante, re di Orcomeno, che la inseguiva armato di frecce per uccidere lei ed il piccolo loro figlio Melicerte (Atamante ha appena colpito a morte il figlio maggiore Learco), dalla roccia Moluride si gettò in mare. E nel corso della caduta e al momento del tuffo che la avvolse di schiuma avvenne che Giove facesse quei flutti ospitali e rendesse Ino ed il figlio immortali. La mutò in Leucòtea divinità benefica votata a dare aiuto ai naufraghi che nel nome si manifesta come la “bianca dea”, colei che fluttua sul fiore delle acque marine.

Torniamo alla pagina di Omero, composta nei versi di Ippolito Pindemonte. Una volta apparsa, sono questi i consigli che Leucòtea rivolge ad Ulisse: “Fa’, poiché vista m’hai d’uomo non folle,/ciò ch’io t’insegno. I panni tuoi svestiti,/lascia il naviglio da portarsi ai venti,/e a nuoto cerca il feacese lido,/che per meta de’ guai t’assegna il fato”. Con tali parole ecco che porge al naufrago un bianco nastro. Un lungo lembo di stoffa che riconosci simile, per la forma e per il colore, alle cime candide dell’onde che biancheggiano tutto attorno. Son esse che ti sollevano prima di defluire e riavvolgersi oscurandosi in cupe trasparenze dalle quali, ancora e ancora, viene ad evolversi una nuova, salvifica bianchezza. E Leucòtea raccomanda allora: “Ma questa prendi, e la t’avvolgi al petto,/fascia immortal, né temer morte o danno./Tocco della Feacia il lido appena,/spogliala, e in mar dal continente lungi/la gitta, e torci nel gittarla il volto”. Ciò detto Leucòtea scompare. Ulisse ne perde la vista esattamente come avviene d’un’onda quando cede la spinta che la sostiene. Rientrò, dice il poeta, “in seno al fosco/mare ondeggiante, che su lei si chiuse”.

E Ulisse “i panni che la dea Calipso/dati gli avea, svestì, s’avvolse al petto/l’immortal benda, e si gittò ne’ gorghi/boccon, le baccia per nôtare aprendo”. La fascia che si annoda fa di Ulisse una cresta d’onda, lo rende quale è la spuma che procede secondo l’andamento impresso dai venti alle acque del mare. Si attribuisce a Talete il motto “Tutto è pieno di dei”. La figura mitica, ha scritto Walter Friedrich Otto, è un fenomeno originario e argomenta che, per i Greci, il mondo è la molteplicità degli dei: “sono le figure divine, considera, a rivelare tutto ciò che è essenziale e vero”.