Si potrebbe ovviamente partire dall’abbraccio fraterno con Roberto Mancini, un attimo dopo il rigore decisivo parato da Donnarumma che è valso il titolo europeo. Quella serie di penalty Gianluca Vialli, morto ieri dopo anni di cure per un tumore al pancreas, l’ha seguita di spalle, distante dal gruppo azzurro che formava un pacchetto di mischia a centrocampo, sorseggiando una bottiglietta d’acqua. Mancini, che passeggiava da quelle parti per allentare la tensione, gli raccontava chi andasse di volta in volta sul dischetto.

CORAGGIO DA VENDERE, dentro e fuori dal campo, un approccio al calcio britannico, Vialli quei rigori non li ha voluti vedere: l’amore per la nazionale italiana, per l’Italia, lui, da famiglia alto-borghese di Cremona, residente a Londra da oltre un decennio, era totalizzante. Anestetizzante. Era, famiglia a parte, il suo tutto. Il suo argine alla malattia. Per comprenderlo meglio, basta leggere l’omaggio che gli è stato rivolto da Florenzi, Insigne e altri campioni d’Europa.

Anche per questo motivo il tributo a Vialli non sta conoscendo steccati. Anche il Genoa lo ha ricordato con affetto sui social e si sa che il derby di Genova è tra i più sentiti. È stato un simbolo della Juventus, la squadra che più divide nel nostro calcio. Soprattutto quella Juventus della Triade, tanto discussa per quei muscoli gonfiati e per i metodi poco ortodossi della dirigenza bianconera, poi svelati dal tempo e da Calciopoli. Eppure Vialli è andato oltre. È davvero appartenuto a tutti, mai divisivo, anzi. Sempre educato, professionale. Lo si avvertiva vicino, anche senza conoscerlo. Non è stato neppure un santo. Né, almeno nelle sue intenzioni, un eroe. Ha saputo commuovere e soprattutto ispirare a vivere. A non sprecare il tempo, che sapeva fosse poco.

GLI SI FAREBBE UN TORTO a raccontare esclusivamente del Vialli allenatore al Chelsea, poi dirigente, poi commentatore sportivo ammirato a Sky, poi fondatore dell’associazione per la raccolta fondi per la Sla (assieme a Massimo Mauro), infine del Vialli ispiratore anche nella malattia.

L’ex punta di Samp e Juventus è stato uno dei migliori di quando il calcio italiano produceva talenti e bellezza, attaccanti e rifinitori, gol e magie. È accaduto negli anni ‘80, poi nei ‘90. Lo voleva Berlusconi al Milan, assegno in bianco, prima di prendere Van Basten. È rimasto a Genova per realizzare la meravigliosa storia doriana, con Mancini e Boskov: lo scudetto del 1991 che rompeva l’asse Milano-Napoli mentre la Juve arrancava, poi la finale di Coppa dei Campioni l’anno dopo, persa ai supplementari su punizione di Koeman, ma anche una Coppa delle Coppe. Fotografia di un altro calcio. I compagni della Samp li ha salutati per l’ultima volta a dicembre, alla prima del docufilm La Bella Stagione. «Sapeva che non ci saremmo più visti», ha raccontato Beppe Dossena, uno dei pezzi di quella squadra.

UN ALTRO CHIODO NELLA MENTE di Vialli – che spiega il suo ruolo di capo-delegazione a Euro 2020, nonostante il male -, condiviso con Mancini, è stato non vincere con l’Italia. Terza nel Mondiale di casa, nel 1990, due anni prima uscita in semifinale con la formidabile Urss del colonnello Lobanovsky agli Europei poi vinti dagli olandesi. I gemelli del gol si sono rifatti decenni dopo. Si sono abbracciati. Li abbiamo abbracciati tutti.