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Tadeusz Konwicki artista del ‘900

Tadeusz Konwicki artista del ‘900Scena da "Madre giovanna degli angeli" di Kawalerowicz sceneggiato da Konwicki

Ultravista Letterato disinvolto, cineasta moderno, tutto si tiene nella sua produzione grazie a una nostalgia del passato che cuce insieme l'intera sua opera

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 gennaio 2015

Se ne è andato lo scorso 7 gennaio l’Artista che era stato «concepito nella vecchiaia». È così che Tadeusz Konwicki amava ripetere parlando di se stesso, quasi a voler sottolineare tutto il peso di una responsabilità intellettuale avvertita come tale per tutta una vita. E lo avevo fatto anche nell’almanacco autobiografico Kalendarz i Klepsydra (1976), inedito in Italia. Avrebbe compiuto 89 anni il prossimo 22 giugno, Konwicki che aveva, suo malgrado, riportato in auge nella letteratura polacca il genere letterario dei sylwa, le monumentali cronache domestiche scritte dalla nobiltà locale in epoca medievale diventate poi altro in epoca post-moderna, che presentano una raccolta variegata di riflessioni all’insegna di un autobiografismo sempre aperto verso l’Altro. Konwicki resterà senza troppi proclami uno dei grandi artisti multidisciplinari del Novecento polacco. L’artista polacco ha saputo essere un letterato disinvolto ma anche un cineasta moderno emerso nel dopoguerra dalla scuola di Lodz. Tutto si tiene nella sua produzione eterogenea. Anche nei suoi sylwa l’artista è riuscito ad evitare ogni forma di pastiche stilistico. Se la coerenza del suo lavoro non sembra sfilacciarsi di fronte a nulla lo si deve anche ad una nostalgia trasversale del passato che tiene insieme tutta la sua opera. Dopotutto anche lui era nato in quella terra lituana cosmopolita allora appartenente alla Polonia celebrata un secolo prima dal bardo romantico Adam Mickiewicz. «Lui era come Mickiewicz e Czeslaw Milosz un figlio di quel Granducato di Lituania, territorio avulso alla bestemmia dell’esclusività etnica», lo ha ricordato in questo modo Adam Michnik direttore del quotidiano Gazeta Wyborcza in un editoriale. Come molti altri artisti della sua generazione Konwicki ha dovuto imparare ad essere cosmopolita nonostante la limitata libertà di movimento. Aveva avuto attraverso i suoi scritti parole d’amore per altri popoli come i bielorussi. Eppure Konwicki non era mai stato russofobico. Partigiano nella resistenza polacca durante l’occupazione nazista, negli anni di formazione aveva scritto il romanzo Przy Budowie (1950) ispirato alla sua esperienza come operaio dei cantieri Nowa Huta, città ideale costruita ex nihilo attorno ad una pantagruelica acciaieria a Cracovia. Intanto il definitivo trasferimento della redazione di Odrodzenie, il settimanale per il quale aveva cominciato come correttore di bozze – da Cracovia a Varsavia nel 1947 non lo aveva scoraggiato. La capitale polacca sarebbe rimasta fino alla fine la sua città d’affezione per scelta e forse un po’ anche per abitudine. E lì che Konwicki avrebbe abbandonato progressivamente i canoni del realismo socialista. Se Konwicki continua ad essere ricordato da noi come regista piuttosto che come scrittore, lo si deve al fatto che la sua copiosa opera è stata poco tradotta in Italia. Unica eccezione, il romanzo Piccola Apocalisse dedicato ad un intellettuale convinto dagli altri a darsi fuoco in segno di protesta. Apparso in una traduzione curata da Pietro Marchesani per Feltrinelli nel 1981, dodici anni dopo Costa-Gavras trarrà liberamente da quest’ultimo uno dei suoi film. Konwicki aveva i suoi rituali: la passeggiata mattutina davanti alla Tomba del Milite Ignoto in Piazza Pilsudski durante il cambio di guardia e poi il pranzo al Czytelnik, il caffè letterario in via Wiejska del quale era diventato il mattatore indiscusso. E in questo locale ancora in esercizio che Konwicki soleva riunirsi con i suoi amici di sempre, gli attori Gustaw Holoubek e Andrzej Lapicki.
Il cinema aveva fatto irruzione ben presto nella sua vista. La decisione di diventare uno sceneggiatore l’aveva presa senza esitazioni di fronte ad una tazza di caffè offertagli da un funzionario statale. Diventato direttore letterario del «zespol» (gruppo di produzione) Kadr guidato dal regista Jerzy Kawalerowicz, Konwicki gli regalerà le sceneggiature di alcune delle sue migliori pellicole: Madre Giovanna degli Angeli (1961) premiato a Cannes e Il Faraone (1965) colossal prebiblico nominato agli Oscar come miglior film straniero. Come gesto di protesta perché il suo compenso era troppo basso, Konwicki aveva raccontato una volta di aver sequestrato lo smoking «maledetto» di Kawalerowicz. Chiunque lo indossava di solito tornava a casa mani vuote da un festival. Sin dagli esordi Konwicki era stato vicino ad altri cineasti come Andrzej Wajda. Era stato lui a convincere la commisione statale che avrebbe acconsentito a lasciargli girare I dannati di Varsavia (1957). A distanza di anni Wajda avrebbe a sua volta definito il suo collega come precursore della nouvelle vague francese per il suo L’ultimo giorno dell’estate (1958) esordio minimalista dietro la macchina da presa di Konwicki girato con mezzi di fortuna tra le dune della costa baltica. Molti tempo dopo, Wajda porterà sul grande schermo Cronaca di avvenimenti amorosi (1986) romanzo autobiografico di Konwicki che celebrava la Vilnius pre-bellica della sua infanzia. Sarebbero arrivati poi altre opere come Zaduszki (1962) nel quale si fa più esplicito il tema del superamento dei traumi bellici. Un argomento che era stato appena suggerito nel film precedente dal rombo degli aerei che sorvolano la spiaggia semi-deserta, luogo d’incontro dei due protagonisti. Un posto speciale della filmografia di Konwicki è occupato da Salto (1965), raccontoonirico-allegorico che sembra anticipare il Fellini di La città delle donne (1980). Memorabile la sequenza surreale di Salto (1966) che mette in scena un valzer di sonnambuli su musica di Wojciech Kilar. Il grande Cybulski in giacca di pelle inquadrato di spalle ne detta il tempo come un direttore d’orchestra dopo averne suggerito il tema con un contrabbasso. E forse il cinema aveva concesso a Konwicki quella libertà formale che la letteratura non gli avrebbe dato per amore della verità anche quando era rivolta verso se stesso.

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