Tacita Dean, la realtà sul punto di sparire
Tacita Dean in mostra a Londra: "Landscape" alla Royal Academy, "Portrait" alla National Portrait Gallery, "Still Life" alla National Gallery Una vera celebrazione per la più ostica fra gli Young British Artist. La sua arte è un "memento mori" e usa perciò il cinema, sentito come archeologia. È anche un tentativo di far dialogare vivi e morti e una riflessione sulla cecità, come nel film dedicato ad Antigone
Tacita Dean in mostra a Londra: "Landscape" alla Royal Academy, "Portrait" alla National Portrait Gallery, "Still Life" alla National Gallery Una vera celebrazione per la più ostica fra gli Young British Artist. La sua arte è un "memento mori" e usa perciò il cinema, sentito come archeologia. È anche un tentativo di far dialogare vivi e morti e una riflessione sulla cecità, come nel film dedicato ad Antigone
«Producendo immagini con lo stesso spirito di chi si lancia ad attraversare la strada col giallo un attimo prima che appaia il rosso, devo riconoscere che la mia preferenza per i filmati è avvolta nella cecità che mi è necessaria al fine di vedere». Così Tacita Dean, una dei YBAs (Young British Artists), la generazione degli artisti britannici nata alla metà degli anni sessanta e affermatasi all’alba degli anni novanta, che combinava ribellismo esistenziale e opportunismo mercantile, presenta il suo lavoro nel catalogo della triplice mostra che le hanno tributato congiuntamente la National Gallery (Still Life), la National Portrait Gallery (Portrait) e la Royal Academy (Landscape, quest’ultima fino al 12 agosto; catalogo cumulativo: Tacita Dean: landscape, portrait, still life, con testi, fra gli altri, della stessa Dean, Alexandra Harris, Alan Hollinghurst e Ali Smith, pp. 224, £ 24,95).
Meno commerciabile di Emin e Hirst
La mostra è stata dislocata nei tre templi più ufficiali dell’arte a Londra (cui andrebbero aggiunte le due Tate, Britain e Modern, ma qui Dean è di casa, accolta con una personale fin dal 2001 e invitata a esporre nella Turbine Hall nel 2011), ed ha consacrato l’artista forse più difficile della YBAs generation, dal momento che il suo lavoro con pellicole e cellulosa l’ha presto differenziata dai vari Hirst ed Emin, decisamente più famosi e commerciabili. Difficile non solo per l’adozione di una forma meno immediatamente fruibile come il film in 16 millimetri, che nei salotti dei miliardari non funziona granché, ma anche perché nella sua scelta espressiva ha fatto prevalere l’elemento archeologico su quello popolare: per lei il film è un’arte in via d’estinzione, sopraffatta dalle tecnologie digitali che lo stanno già relegando a oggetto d’antiquariato.
La grande sfida della triplice mostra è perciò quella di far dialogare i vivi e morti, seguendo il principio di una sua famosa dichiarazione che «tutto ciò da cui sono attratta è sul punto di sparire». Meglio non farsi riprendere da lei, direbbe uno scaramantico, visto che Mario Merz, Michael Hamburger, Cy Twombly e Merce Cunningham sono tutti morti poco dopo che Dean li ebbe filmati. I loro ‘ritratti’ erano esposti nella sezione dedicata a Portrait del trittico, dove più che la rappresentazione individuale trionfava una vera e propria ‘idea del ritratto’, fondata sul movimento, nel tempo, e la contestualizzazione, nello spazio: ritratto perciò non fotografico, ma filmico. Merz, un artista, siede nel suo giardino e contempla le forme nello spazio; Hamburger, un poeta, è coperto da rami e carte; Cunningham, un coreografo, non è più in grado di danzare. Memento mori, sembra dire la Dean, che accarezza la vita nella sua fragilità e caducità: tanto più nelle nature morte, tra le quali spicca Prisoner Pair, un film del 2008 che gioca fin dal titolo con la situazione politica delle due regioni che lo commissionarono, l’Alsazia e la Lorena, ma anche la specialità locale, la poire prisonnière, la pera imbottigliata immersa nell’alcol.
Montagna di gesso su lavagna
Artista visuale e concettuale, Tacita Dean è tutta film e foto, ma non dimentica la sua formazione pittorica, che si esalta nei paesaggi: un’enorme montagna di gesso su lavagna (The Montafon Letter, creato apposta per la mostra, che rimanda alla storia delle tre valanghe in Austria nel 1689, quando una prima valanga seppellì trecento persone, la seconda il prete che era venuto a officiare i funerali e la terza disseppellì tutti), una maestosa quercia fotografata e distaccata dal fondo grazie alla gouache bianca (Majesty, 2006) e una gigantesca scena di montagna e deserto con la tecnica del fotointaglio (Quarantania, 2018, che rappresenta la montagna delle tentazioni da cui il diavolo propose a Gesù il dominio del mondo) sono tutt’e tre vagamente allucinate e tutt’e tre divise in pannelli, come se lo sguardo non potesse, e forse neppure volesse, contenerle intere. Qui la sua maestria tecnica si esalta alla ricerca di un effetto di travolgimento e spiazzamento insieme: l’opera ci viene addosso, perché il primo piano è isolato dallo sfondo e sembra accennare un movimento in avanti. Meglio guardarla da vicino, infatti, per abbracciarla: come dobbiamo fare, del resto, con le altre opere di questa sezione, piccolissime e meticolose, dedicate alle formiche e ai quadrifogli. È questo abbraccio che cercano anche i suoi filmati; ma non sempre si realizza, perché la fotografia prevale sulla narrazione e lo spettatore si chiede le ragioni del medium.
Il film che corona le tre mostre è dedicato ad Antigone, che è l’eroina maledetta per eccellenza, figlia e sorella di Edipo allo stesso tempo. Campionessa del diritto naturale eppure criminale per il diritto positivo, leader femminista ma anche terrorista ante litteram, Antigone è simbolo di una contraddizione insanabile, come dice il suo stesso nome, segnato da quell’anti che in greco porta con sé la sfida e il conflitto. Antigone è del resto il nome della sorella più grande di Tacita, come se la parola della prima avesse ridotto la seconda al silenzio, in un destino comune di sopraffazione e ribellione continue: più che la sepoltura di Polinice e la lotta con Creonte (il tema dell’Antigone sofoclea), all’artista interessava la relazione con il padre, l’anello mancante tra le altre due tragedie di Sofocle dedicate alla saga dei Labdacidi, l’Edipo Re, che si conclude con Edipo che si acceca alla scoperta di essere stato con sua madre e si autobandisce da Tebe, e l’Edipo a Colono, che si apre con Edipo condotto da Antigone nel bosco sacro agli dei. Cos’è successo nel frattempo? Come si è costruita la relazione fra padre e figlia? Cos’ha lasciato lui a lei e cosa ha preso lei da lui?
Al centro c’è la cecità, che mette in comunicazione due mondi attraverso il medium dell’invisibile, che non è la parola, ma l’immaginazione: l’eclissi, la catastrofe naturale, il paesaggio divorato dal sole. È la natura a mettere in comunicazione il vecchio che ha perso la vista e vuole morire e la figlia che sta perdendo il padre, ma vuole vivere: attraverso le immagini, solo percepite dall’uno e fatte sentire piuttosto che evocate dall’altra, immersi in un contesto comune e in sensazioni comuni, in uno sdoppiamento che unisce, Edipo e Antigone si scoprono congiunti, rivolti entrambi all’invisibile, a un sogno di intelligenza e giustizia che l’uomo e la donna possono solo intravedere, senza mai raggiungerli. L’arte è proprio l’esperienza di quest’ambivalenza, una cecità creativa, una ‘tensione-verso’ che denunci anche il suo limite, suggerisce Tacita Dean: solo comprendendo Edipo si può dare forma ad Antigone, che resterà eroina filosofica, ma soprattutto ideologizzata e disumana, finché non si colmerà il gap fra l’Edipo Re e l’Edipo a Colono.
Una «mise-en-abyme», dal 1997
Il film è dunque una mise-en-abyme, riflessione nella profondità dell’abisso, dell’esperienza stessa dell’artista, che lo ha ideato nel 1997 e lo ha compiuto solo vent’anni dopo: è tempo che scorre, deposito di conoscenza reciproca e ricerca di forme adeguate. Solo facendo passare il tempo (il film) e dando forma alla relazione (la fotografia), è possibile un rapporto, tanto sul piano della creazione artistica quanto su quello delle interazioni umane. Tutto ciò ha una forza straordinaria sul piano intellettuale e su quello visivo, ma è disperatamente impotente su quello narrativo. Se si pensa al cinema come arte eminentemente diegetica, col fine di raccontare storie avvincenti ed emozionanti, la delusione incombe; ma se si pensa al cinema come esperienza, in cui l’atmosfera avvolge i sensi e cancella le consapevolezze, allora forse potremo anche noi vagare come ciechi e dimenticare abbastanza da trovare la nostra destinazione. Il paradosso è che forse il film andrà ormai visto a occhi chiusi: se Edipo cercava ancora un senso nei ritratti e nelle nature morte, è nei paesaggi che riesce finalmente ad abbandonarsi, là dove tutto è troppo grande (o troppo piccolo) perché la mente possa afferrarlo.
Come ha scritto Anne Carson, la professoressa e poetessa canadese con cui Tacita Dean ha lavorato a stretto contatto per il progetto su Antigone, l’autrice di TV Men: Antigone – Scripts 1 and 2 (2001) e Antigonick (2012): «Ora che Edipo si è alzato, Antigone si alza. Lui comincia a muoversi, nel vento, immerso in ricordi preziosi. Pensando Troppa memoria Antigone lo segue. Entrambi risplendono d’oro lungo il cammino del tramonto». Visione pura, al buio e nel buio; e invito alla cecità, per vedere oltre il visibile
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