C’è un nuovo sentire che si aggira nella Pinacoteca Agnelli, collocata nel Lingotto, luogo storico e identitario della storia d’Italia e ora centro propulsivo di mostre e installazioni site specific. È Sarah Cosulich, la nuova direttrice della PA, ad aver architettato in pochissimo tempo questa scossa espositiva che si avvale di una grande ridiscussione su gender, identità del luogo e capovolgimento degli stereotipi maschili intorno all’auto, e di una nuova idea di ricollocazione e visione dell’opera contemporanea. Per far questo, Cosulich ha organizzato un robusto team articolato in dipartimenti (cura, educazione, comunicazione, collezione e conservazione) che innestano i contenuti.

La prima grande esposizione è Sylvie Fleury, Turn me On, curata da Cosulich e da Lucrezia Calabrò Visconti. L’omaggio incauto e bellissimo alla «Femminista punk sotto mentite spoglie», come Fleury ama definirsi, offre un sorprendente itinerario mentale e oggettuale dell’artista (Ginevra, 1961) e Premio Meret Oppenheim (2018), che ricopre una ricerca anticonvenzionale e inquieta di circa 60 opere.

IL SUO IMMAGINARIO, infatti, si sottrae da sempre al cliché del femminile (così come da secoli viene egemonizzato dal mondo della comunicazione e del consumo) per appropriarsi di tematiche e passioni che surclassano l’indolenza patriarcale. E, solo visitando e sentendo l’irruente e sottile fenomenologia delle sue opere, si può pervenire alla complessità del suo fare, alla dicotomia tra fallimento e revanche, tra perdita e resistenza critica.

Fleury, palpitante signora punk smantella il noioso stereotipo e lo restituisce con una leggerezza pop che affascina o irrita. Si evince subito, nella prima sala, col grande neon Please, No More of That Kind of Stuff (Per favore, basta con questo genere di cose) del 2007, che ironicamente ripone la frase estratta dal commento negativo di un visitatore in una delle sue prime mostre e lo fa divenire l’assunto di tutto il suo lavoro. Un affronto radicale al mondo degli oggetti con cui l’universo fashion seduce e disorienta ottusamente la fruizione del femminile. Colloca, dunque, in teche trasparenti, Gucci Handcuffs (2001-2002) delle manette dorate by Gucci, le Balenciaga Knife Pumps (2019) con tacco vertiginoso e coperte di borchie affilate, Revolver (2009) un asciugacapelli dorato simile a un revolver in una costante corrispondenza di seduzione e pericolo.

Ciò che la fiammeggiante punk lady fa, sostanzialmente, è un lavoro di ready made, decontestualizzando l’oggetto e suggerendo le potenziali dinamiche di scardinamento e la carica eversiva che esso possiede come oggetto dialettico. Oltre alla sofisticata compiacenza che Fleury dedica alla rivisitazione dell’avanguardia artistica (minimalismo, concettualismo) trascritta in forme anomale e fantasmatiche. Come in Fur Fetish: Silver Screen Survey (1997) dove assimilando la eco-pelliccia bianca che ricopre l’intera sala alla donna, l’artista incastra dei fazzoletti dattiloscritti con scene di film hollywodiani in cui le star indossavano pellicce, tra cui Casino con Sharon Stone, Cocktail con Kelly Lynch. Per passare poi nella sala The Eternal Wow (2005-2022), interamente coperta da un pattern a strisce verticali che rinvia inequivocabilmente a Daniel Buren e al cui centro una grossa gabbia dorata Gold Cage LKW (2003), forzata in alcune sue parti, invita a «liberare» Buren dalla sua cifra e a liberarsi dalle strutture di potere della retorica sul genio maschile. Piuttosto delinea una via di fuga.

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FANTASTICO È IL SUO LAVORO First Spaceship on Venus (1998), deviante squarcio al femminile dell’universo fantascientifico che Fleury proietta in un landscape di razzi colorati o rivestiti di pelliccia bianca 16ABC (1998), allocati in Flames (1998-2022) dei wall painting di fiamme stilizzate fucsia, usualmente errabondi su moto, camion customizzati, oltre ai vari Soft Rockets (1999) razzi argentati flosci in gommapiuma che si distendono sotto un lunare neon blu che recita High Heels on the Moon (2005).

C’è ancora She-Devils on Wheels, nome di un fan club automobilistico per donne fondato dall’artista negli anni 90, ispirato al cult del 1968 di cui le Men Eathers ne sono le protagoniste, che commistiona sculture, banner, video, collage, forcine giganti in ferro, scocca di auto laccata, abiti ignifughi argentati, barili e una borsa Chanel. Certo, c’è tanto altro in questo estroso excursus fleuriano: t-shirt, scatole, il neon Yes to All (sistemato sulla Pista 500), il video Walking on Carl Andre (1997) e l’installazione Cher Body Confidence, Jane Fonda’s Easy Going and Raquel Welch Body and Mind (1992-2022), una delle sue prime opere, in cui mostrava su 14 televisori vintage delle star del cinema in seduta di aerobica. Negli anni Ottanta, infatti, l’idea dell’esercizio fisico come strumento di benessere pubblico indirizzato quasi sempre agli uomini, veniva smontato dalla fitness queen, Jane Fonda. Pungente e diafana, ecco la filosofia di Sylvie Fleury: «A volte ciò che serve è grattare la superficie, altre volte bisogna farla saltare in aria».

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LA «PISTA 500» (la pista dedicata al collaudo automobilistico con la famosa parabolica, situata sul tetto del Lingotto) è l’altra novità innescata da Sarah Cosulich. Riconvertita in parco pensile, oggi si mostra in tutta la sua estesa densità di polmone verde sabaudo, lounge bar con FiatCaffè 500 e luogo di site specific con le installazioni di Nina Beier, Valie Export, Marc Leckey, Sylvie Fleury, Shilpa Gupta, Cally Spooner e Louise Lawler.

E ancora, il progetto Beyond The Collection che viene inaugurato con la mostra dialogica tra Pablo Picasso e Dora Maar, a cura di Cosulich, Lucrezia Calabrò Visconti e Beatrice Zanelli. C’è molto da vedere, molto da pensare.