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Sylvain George, piccoli migranti nella notte oscura

Sylvain George, piccoli migranti nella notte oscura

Intervista Il cineasta francese, vincitore dell'ultima edizione di Filmmaker, presenta alla kermesse milanese un nuovo capitolo

Pubblicato circa un anno faEdizione del 18 novembre 2023

Una filmografia corposa di documentari, sia corti che lunghi, incentrati sulle migrazioni e sui movimenti sociali, cominciata nel 2006. È quella del filmmaker francese Sylvain George, che ha partorito un nuovo lavoro dal titolo Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où. Ancora un atto di militanza sulle persone senza diritti, i «nouveaux damnés» come li definisce il regista, qui un gruppo di minorenni marocchini che scorrazza nelle strade di Melilla. La città, enclave spagnola in Marocco, è un punto nevralgico per i tentativi di partenza per l’Europa, ma anche un luogo simbolo del colonialismo, nonché epicentro, come sede dell’insurrezione militare del 1936, della guerra civile spagnola. Ancora gravida di ricordi: l’unica città dove sopravviveva una statua del dittatore Franco, rimossa solo nel 2021.

Dopo la presentazione a Locarno, sarà ora possibile vedere Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où in Italia, in occasione del Filmmaker Festival a Milano, e dell’Efebo d’Oro Film Festival a Palermo.

Mi puoi parlare del tuo lavoro di ricerca sull’immigrazione?
Voglio comprendere le politiche sull’immigrazione in Europa, attraverso le loro conseguenze sul campo, nella riconfigurazione dei luoghi, dalle persone coinvolte. Preferisco parlare di politiche di immigrazione che di migranti. Il mio approccio non è sociale o umanitario, è politico. Se una persona vive per strada è una conseguenza di queste politiche. Mi interessano le persone che migrano, come reagiscono, come devono gestire la loro realtà. E dalle loro parole, dai loro gesti raccontare il loro nuovo modo di vivere il mondo.

Quanto dura mediamente il tuo lavoro sul campo?
A Melilla, come prima a Calais, sono stato tre anni. Ho speso tantissimo tempo a capire la realtà insieme alla gente, continuando a scavare, scoprendo sempre più cose. Un lavoro più profondo di un semplice reportage. Con lo scorrere del tempo poi si può vedere come le politiche possano realizzare una riconfigurazione. Un luogo dove si ricevono i pasti può essere riconvertito a un’altra funzione in un attimo.

Sono cose che devo scoprire da solo, con i migranti, senza mediatori. Devo incontrarli, conoscerli, capire come sono. Altri miei film sono stati fatti molto più velocemente e in emergenza: quelli sugli Occupy Movement a Madrid e a Parigi (Vers Madrid – The Burning Bright, Paris est une fête Un film en 18 vagues). Ero sul posto perché volevo capire il primo movimento di protesta organizzata del XXI secolo. Non sono stato a lungo nei luoghi. Una settimana la prima volta, una settimana nel secondo anno. Qui uso la forma dei newsreel di Robert Kramer, per raccontare ciò che i media non dicono. Sono film più spontanei, con poche risorse. Non si tratta di film politici, perché i film politici cercano di combinare estetica e poetica. Io non faccio una separazione tra politica ed estetica.

Perché nel film hai usato questo tipo di fotografia in bianco e nero contrastato?
Melilla è una città coloniale dal XVI secolo, una delle ultime colonie spagnole, un confine tra Spagna e Marocco, Europa e Africa, una città europea in Africa. Una connessione tra passato e presente, colonialismo e post-colonialismo. Seguendo i ragazzi, esplorando la città con loro, scopriamo la parte storica, con le sculture, ma scopriamo anche le politiche post-coloniali. Voglio rendere queste idee con il potere del cinema, una delle cui potenzialità è la fotografia in bianco e nero, che è associato al passato, all’archivio. Lavoro a stretto contatto con la realtà, con il bianco e nero posso creare distanza e connettermi con il passato. Per Melilla è come un palinsesto: abbiamo tutti questi livelli storici della città, ma anche livelli storici del presente, per la storia delle migrazioni. Tante tracce, barriere vecchie e nuove. Lavoro sull’idea di archivio di documenti, del presente e del passato. E posso distruggere lo stereotipo stesso dell’archivio, invertendone la concezione principale. Le politiche migratorie di oggi trovano legittimazione con il mito del progresso delle scienze umane, ancora molto forte, secondo l’idea che il passato fosse peggiore e che oggi è tutto meglio.
Con questa mia inversione, questo mito viene distrutto. Il bianco e nero è una sorta di critica, plastica e visiva, alla forma di rappresentazione dominate. Una critica anche alla violenza, perché una delle conseguenze di queste politiche è la violenza. Uso le tecniche dell’avantgarde. Cerco di creare uno spazio e un tempo speciali, una concezione del tempo non lineare, con una discontinuità frammentata, dove il passato incontra il presente e il presente incontra il passato, il passato dà alla luce il presente, il presente dà alla luce il passato. Sono influenzato dall’opera di Walter Benjamin, e mi ispiro al lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi.

In che modo ti rifai al cinema di Gianikian – Ricci Lucchi?
Io non lavoro con il found footage ma il mio approccio è molto simile al loro. Il loro lavoro sugli archivi è un atto di distruzione mediante la riproposizione di immagini di repertorio. In Immagini dell’Oriente: Turismo da vandali, per esempio, sul colonialismo in India, ci sono inquadrature con persone appartenenti al mondo coloniale, ben vestite, con il tipico casco. E in seconda fila ci sono le persone indiane, che ridefiniscono il quadro, i bambini spauriti che guardano in camera. Così fanno emergere il soggetto, l’ideologia colonialista, protofascista. Anch’io faccio emergere l’ideologia sottesa alle politiche sull’immigrazione. Se consideriamo il found footage come un’ideologia visiva, la mia forma di rappresentazione riguarda un’ideologia invisibile. Ho solo una critica su come usano la musica. Costruiscono delle elegie visive, molto forti in termini di immagini. Anche la musica è molto elegiaca. È una doppia elegia. Preferisco vedere Prigionieri della guerra a casa togliendo l’audio. È più potente.

C’è un preciso ritmo nel film scandito dai frame neri. Come lavori al montaggio?
L’idea è di trovare una via, delle soluzioni plastiche per creare uno spazio e un tempo non lineare. Secondo una concezione del tempo e della storia non lineari, non ispirati al mito del progresso. Il film è un momento in cui il passato e il presente sono connessi in una grande costellazione, usando un’espressione di Benjamin. Ho usato i concetti di frammento, di bianco e nero, il gioco con la velocità delle immagini, lo slow motion. È molto evidente nella prima parte. La seconda è più adatta a costruire sentimenti.

L’idea era anche di presentare momenti autonomi, senza una monade, che potessero comunicare tra di loro. Ogni parte del film può essere vista autonomamente. La vita è così. Ci sono dei momenti speciali, in cui sei molto concentrato, cose molto importanti all’improvviso. Puoi creare corrispondenze e risonanze. L’idea dei frame neri è davvero ispirata alle cose della vita. Quando riprendo cerco di essere vigile su ciò che succede al momento: l’evento principale, quello minore. Connetto il locale con il globale. Al montaggio fisso i momenti che ho registrato.

Alcuni segnali interni riguardano le scritte sui muri di Melilla. Fai vedere una targa, celebrativa, sulla casa dove aveva vissuto da giovane il dittatore Franco. E poi c’è quella buffa scritta, «Solo i pesci morti seguono la corrente», che sembra richiamare la scena iniziale con i pesci morti sugli scogli. Che significato ha?
Un piccolo gioco ma con un significato perché in questa città, in Spagna, in Italia, in Francia, in Europa si sta attraversando un momento particolare. Questa frase è quasi un riassunto del mondo d’oggi, di come qualcuno voglia che la gente pensi solo in un certo modo. Una riduzione a una sola visione del mondo, come può fare il fascismo, l’autoritarismo, l’ideologia egemone del liberalismo. Il film in un certo senso mostra questo: nella visione dei ragazzi come sia importante avere una moltiplicazione dei punti di vista.

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