Sylvain George, buio pesto a Melilla, aspettando l’Europa
Intervista Il regista francese Sylvain George su «Nuit obscure», doc sui migranti nell’enclave spagnola, stasera a filmmaker
Intervista Il regista francese Sylvain George su «Nuit obscure», doc sui migranti nell’enclave spagnola, stasera a filmmaker
Melilla è un’enclave spagnola in Marocco, uno dei luoghi chiave sulla mappa della migrazione dall’Africa all’Europa. Melilla è un purgatorio, con le anime di tanti e tante in attesa di superare il confine per essere «salvi». Melilla è un inferno, alla fine di giugno decine di persone hanno lasciato la vita tentando di entrarci, di superare quell’enorme barriera di ferro presidiata dalla polizia. Melilla sarebbe un paradiso con il calmo mare che luccica, le scogliere, le palme. Il regista francese Sylvain George presenterà stasera a Filmmaker Festival in prima italiana, alle 19.30 alla Sala Gregorianum di Milano, il suo ultimo lavoro Nuit obscure – Feuillets sauvages, girato nell’enclave. Il film si cala nella condizione d’attesa dei migranti, nella loro vita sospesa tra due mondi. «Non mi piace però la parola “migranti” – afferma George – trovo che tenda a “essenzializzare” coloro che prendono la decisione di lasciare il proprio Paese. Le politiche restrittive però hanno un effetto diretto sui loro corpi, sulle loro condizioni di vita, sulla rappresentazione di se stessi e sulla possibilità di reazione». Questioni di urgente attualità che il regista ha indagato e che abbiamo approfondito raggiungendolo in videochiamata.
Da diverso tempo lavori sulla questione della migrazione, cosa ti spinge a realizzare film su questo tema?
Nuit Obscure è il seguito di altri due lavori sull’immigrazione in Europa che ho girato a Calais, May they rest in revolt e Les éclats. Il punto per me è comprendere le politiche che determinano questa situazione attraverso le loro conseguenze in diverse aree del Mediterraneo. Ogni luogo ha poi la sua peculiarità considerato che ci sono molti accordi tra i singoli Stati: come l’Italia ne ha uno con la Libia, la Spagna ce l’ha con il Marocco. Melilla è una frontiera tra l’Europa e l’Africa, l’ho visitata per la prima volta nel 2005, un anno con un flusso migratorio molto intenso. Ogni dieci anni infatti un gran numero di persone varca il confine africano, in concomitanza con le nuove trattative tra i governi che utilizzano i migranti per far valere la propria posizione e mostrarsi quindi indispensabili per il loro controllo. Purtroppo chi parte è influenzato da queste «variabili di aggiustamento». Ho iniziato a girare solo nel 2018 e le riprese sono durate tre anni.
Il tuo sguardo racchiude l’umano, lo spazio pubblico e l’elemento naturale. Come ti sei approcciato alle riprese?
Il documentario per me è un modo per presentare la realtà operando una de-costruzione rispetto al modo in cui i media mostrano quella situazione. Ciò non vuol dire che non sia molto critico anche con me stesso, cerco quindi di non farmi attraversare dallo spirito del tempo e di mantenere la mente aperta durante le riprese in modo da farmi sorprendere dagli accadimenti, in un processo che Gilles Deleuze definirebbe di «deterritorializzazione». Si tratta di una de-soggettivazione e ri-soggettivazione in cui le gerarchie vengono distrutte, in particolare per quello che riguarda i presupposti filosofici che nutrono le politiche restrittive, come il vecchio concetto di umanesimo e di dominazione della natura. Cerco allora di prendermi cura delle persone, di capire come si muovono nello spazio e nel tempo, e contemporaneamente osservo come io vengo influenzato da loro e dal paesaggio. Talvolta faccio dei collegamenti tra la situazione generale e alcuni dettagli, che sembrano poco importanti ma per me fanno parte del momento e dello spazio. Il cinema non ha a che fare solo con le idee ma anche con le sensazioni; solo prestando attenzione al ritmo di una situazione è possibile costruire un’estetica, giocando poi con le possibilità del mezzo: il bianco e nero è una di queste.
Com’è stata la tua esperienza a Melilla? Si percepisce il rapporto di fiducia che hai costruito con i protagonisti.
La parola chiave è il tempo, è indispensabile per presentarsi, spiegare che film si ha intenzione di fare, il tipo di diffusione che avrà. A Calais c’erano molti giornalisti, persone pronte ad usare qualsiasi mezzo per procurarsi delle immagini, a volte mi faceva arrabbiare vedere questo sfruttamento della miseria. La situazione è dura a Calais ma a Melilla è per certi versi peggiore, è più difficile per chi è lì in attesa procurasi il cibo e i vestiti perché ci sono meno organizzazioni che operano sul campo. Per questo, il piccolo accordo con le persone che filmavo era che portassi loro del cibo. Le testimonianze che i giovani mi hanno consegnato sono molto forti e credo anche emblematiche della situazione delle persone che cercano di raggiungere l’Europa da lì. Dopo qualche tempo, avendo compreso il senso del progetto, i ragazzi stessi hanno iniziato a darmi suggerimenti su cosa dovessi riprendere: è diventato una sorta di lavoro collaborativo.
C’è una sensazione di sospensione che attraversa «Nuit Obscure», che tipo di temporalità si manifesta nel film?
Rimanendo in un posto si possono osservare le stesse situazioni ripetersi ma con piccole variazioni. È un modo per capire più in profondità cosa succede, è un lavoro un po’ ossessivo. Non era semplice filmare perché i ragazzi erano spesso instabili per l’uso di droghe o per il disagio mentale legato alla condizione che vivevano; una circostanza che mi ha spinto a rimanere di più. Non pensavo all’inizio di realizzare un film di quattro ore, ma nel corso del processo è diventata una necessità. Una volta non era un’eccezione per i festival proiettare film dalla durata anomala, ma in questo periodo storico è diverso, ho incontrato molte difficoltà. Io seguo la mia strada, per me un film è una forma di vita, ma trovare spazi per lavori non standardizzati è sempre più complesso.
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